Pechino rivendica la proprietà di dozzine di isole e isolette tra la sua costa sud e la Malesia. Il motivo? I fondali, pieni di petrolio. Alcune appartengono al Vietnam, altre all'Indonesia, a Brunei, a Taiwan e Filippine. Che chiedono aiuto a Washington
Immaginate un oceano vasto 3 milioni e mezzo di chilometri quadrati, circondato da piccoli e grandi Stati con le loro difese costiere, i porti civili e militari, le isole, gli atolli, gli arcipelaghi contesi metro nautico dopo metro nautico. Immaginate un mare dove nuota il 10 per cento del pesce sul pianeta, mentre passano in superficie un terzo delle navi commerciali del mondo, con merci del valore di 1.200 miliardi di dollari annui. Abissi sotto i quali giacciono almeno 100 miliardi di barili di petrolio, oltre a 2 mila miliardi di metri cubi di gas naturale. È il mare della
Cina del Sud, non a caso il più armato e conteso del globo, con un centinaio di sommergibili destinati a diventare 170 entro il 2025, un terzo dei quali batterà - come già oggi - bandiera cinese. Ora succede che si sta concentrando qui la sfida politica, economica e militare di un'altra grande potenza geograficamente lontana, l'
America, decisa a togliere da queste parti al governo comunista di Pechino il ruolo di sentinella del mare, nonché di spauracchio per le piccole flotte dei Paesi "protetti" da Washington: Vietnam, Filippine, Malesia, Sud Corea, Taiwan, Brunei. Non a caso le navi di questi Paesi se ne stanno acquattate nei rispettivi porti militari per non cadere in una delle frequenti operazioni a "branco di squali", ovvero l'accerchiamento sistematico da parte dei mezzi cinesi, fregate, cannoniere, sottomarini e perfino innocue ma aggressive barche da pesca.
Le isole al centro delle contese territoriali più incandescenti sono le
Paracel al largo del Vietnam, già teatro di due brevi guerre con la Cina negli anni '70 e '80, una combattuta dai nazionalisti del Sud e l'altra dai comunisti dopo l'unificazione del Paese. Anche se da tempo regna una pace apparente, due navi per le ricerche petrolifere vietnamite si sono viste tagliare i tubi di sondaggio sfiorando l'ennesima crisi diplomatica. Più a sud il conflitto è storicamente esteso al controllo delle centinaia di isolette delle Spratly, sulle cui terre emerse e immerse (fino a 4 metri sopra il livello del mare) reclamano un diritto territoriale ben sei Paesi. Infine c'è il casus belli più recente dello "scoglio" di Scarborough, uno spuntone roccioso apparentemente circondato da enormi giacimenti di gas e territorialmente vicino all'arcipelago filippino. Si tratta in gran parte di atolli e rocce aride i cui nomi cambiano secondo le mappe dei vari paesi coinvolti nella contesa. Il loro valore si misura più per le ricchezze sotterranee che non per quelle di superficie, oltre al fatto di trovarsi al centro delle rotte transoceaniche da e per il Medio Oriente, l'Europa e l'Africa.
A sfidare apertamente il dominio militare e commerciale cinese in queste acque, è stato il segretario della Difesa americana
Leon Panetta, ospite all'inizio di giugno al vertice annuale Shangri-La dei ministri asiatici tenuto a Singapore per discutere della sicurezza nella regione. Panetta ha annunciato che, entro il 2020, nel teatro di operazioni marittime del Pacifico orientale sarà dislocato ben il 60 per cento di tutte le navi da guerra yankee, tra le quali sei portaerei, e un numero elevato di nuovi mezzi marittimi da combattimento e sottomarini, compreso il South Caroline, capace di trasportare testate nucleari e già spedito da tempo a operare nelle acque dell'Oceano conteso, con base nelle Filippine a Subic Bay.
La Cina non è stata ovviamente colta del tutto impreparata dal rilancio della strategia militare americana, già presente in forze con la VII Flotta concentrata a sud del Giappone e rifornita ora da una nuova base nell'isola di Darwin. Da tempo Pechino ha avviato il rafforzamento della sua base di Hainan con 66 sottomarini, pronta a costruirne di nuovi. Il Vietnam è presente in queste acque con 6 sottomarini, 7 fregate e 10 navi da combattimento, l'Indonesia con 3 sottomarini, l'Australia con 6 sommergibili e altrettanti in cantiere, il Giappone con 16 (saranno 22 entro il 2020), la Corea del Sud ne ha 12, la Malesia 2, l'India, che impiega 15 navi da guerra e ha messo in acqua ad aprile il primo sottomarino a testata atomica, infine le Filippine, che possiedono un centinaio di navi attrezzate al combattimento, e sono in attesa del loro primo sommergibile.
L'annuncio dell'escalation militare americana su questa delicata rotta commerciale e geopolitica era stato anticipato due anni fa dalla stessa segretaria di Stato
Hillary Clinton: "La sicurezza nel Mare della Cina", disse, "è materia di interesse nazionale degli Stati Uniti". Ma l'intervento di Panetta al recente vertice di Singapore arriva dopo le prove di guerra degli ultimi tre mesi tra Cina e Filippine sul possesso dello scoglio di Scarborough, un gruppo di isolotti spesso sommersi durante le alte maree, ad appena 230 km dalla più vicina isola di Luzon governata da Manila, e a ben 1.200 da Hainan, l'isola meridionale cinese dove Pechino sta costruendo la base di sommergibili più grande del mondo.
Nel grande gioco dei Mari del Sud, l'America non può vantare diritti territoriali, ma molti dei Paesi coinvolti nella sfida con Pechino hanno concesso le loro basi alle flotte e agli aerei Usa in cambio di un "patto di protezione" e di mutua collaborazione commerciale, dalle Filippine al Vietnam, da Taiwan alla Corea del Sud e il Giappone. Va da sé che la presenza americana serve principalmente a contrastare la "prepotenza cinese", come l'ha definita senza mezzi termini il governo di Manila. Le Filippine il 14 maggio scorso hanno rivelato che per reclamare il solo atollo di Scarborough, la Cina aveva circondato a "branco di squali" un gruppo di pescherecci filippini, inviando in appena 24 ore ben 5 navi, 16 barche da pesca e 56 natanti multiuso, aumentati la settimana successiva a 76, per un totale di 97 natanti nel raggio di 150 km quadrati.
Nessuno crede che questi venti di guerra porteranno a un conflitto in mare aperto, tenendo conto che la Cina è uno dei principali partner commerciali di Manila. Ma la sfida è uno dei primi banchi di prova della rinforzata alleanza tra l'arcipelago cattolico e il grande alleato di Washington, senza il quale le autorità cinesi avrebbero mano libera in tutte le dispute militari. Lo sa bene anche il Vietnam, che conta a sua volta sulla protezione Usa dopo aver formalmente approvato in questi giorni una legge dove reclama la sovranità sulle Paracel e parte delle Spratly. "Queste isole sono "indisputabile" territorio della Cina", ha risposto un portavoce del governo di Pechino, che ha fatto convocare al ministero degli Esteri l'ambasciatore vietnamita per dirgli che la legge "è una seria violazione della sovranità territoriale cinese".
Sono solo anticipi pepati della delicata discussione prevista a giorni nella capitale cambogiana di Phnom Penh durante un incontro tra i ministri degli esteri dell'Asean, l'Associazione dei Paesi del Sud-est asiatico alla quale sarà presente Hillary Clinton. Alla vigilia del vertice, il presidente indonesiano si è detto preoccupato per le possibili conseguenze della mancanza di un coordinamento tra i diversi Stati che impiegano navi e sottomarini nelle acque contese. Anche se Giakarta non reclama ufficialmente nessuna delle isole di questa regione, le conseguenze di un'escalation militare costringerebbero l'intero blocco di Paesi del Sud-est ad adeguare le rispettive strutture militari e marittime con enormi spese in termini di investimenti e impiego di uomini.
Gli sforzi economici destinati a navi, sottomarini e basi portuali servono prima di tutto a garantire una fetta dell'enorme patrimonio di risorse sottomarine di idrocarburi ancora sfruttato solo in minima parte. Una riserva valutata da esperti americani tra i 28 e i 213 miliardi di barili, superiore alla produzione dell'Arabia Saudita e del Venezuela, sufficiente con i ritmi di consumo attuali a rifornire la Cina per 60 anni. Non a caso gli esperti delle compagnie petrolifere cinesi, dotate di tecnologie sempre più sofisticate per sondare i terreni sottomarini oltre i 3 mila metri (contro l'attuale limite di 1.500), chiamano questa regione "Il secondo Golfo Persico". Un nomignolo che potrebbe non essere di buon auspicio, considerando le molte guerre già combattute per il possesso dell'oro nero.