Picchiate, voiolentate, ricattate. Decine di migliaia di persone, negli ultimi cinque anni, sono state catturate nel Sinai. Un business, quello dei trafficanti di esseri umani, che vale oltre 600 milioni di euro. Sulla pelle di uomini e donne, soprattutto eritrei, in fuga dal loro paese. Un libro raccoglie le loro storie

Dedicato a Lamek, bimbo di tre anni, la cui madre è morta in una casa di tortura del deserto del Sinai. E a Raee, un anno, che in una casa di tortura ci è nata. E a tutti coloro che hanno perso la vita nel Sinai, o a Lampedusa, o da qualche altra parte lungo la strada che attraversa l’inferno. A loro sono dedicate duecento pagine di un libro sconvolgente, quelle che vengono presentate oggi a Laura Boldrini dopo la prima visione riservata nei giorni scorsi a Cecilia Malstroem, commissario europeo agli Affari interni. Il titolo, “Il traffico internazionale di esseri umani: Sinai e oltre”, non rende a sufficienza l’idea delle drammatiche storie di vita che vi vengono raccontate, camuffando talvolta i nomi perché le persone non siano riconoscibili. Il volume racconta un inferno che rende 600 milioni di euro ai trafficanti di esseri umani che catturano, maltrattano, violentano, ricattano alcune decine di migliaia di uomini e donne in fuga dai loro paesi e in nove casi su dieci dall’Eritrea. Dove paesi come l’Egitto o la Libia finiscono spesso per rispedirli.

Lo hanno scritto tre donne, Meron Estefanos, eritrea, attivista dei diritti umani e giornalista che vive a Stoccolma, Myriam Van Reisen, professoressa universitaria e direttore dell’Eepa, centro di ricerca di politica estera con sede a Bruxelles, e Conny Riiken, docente di diritto internazionale e avvocato.  Quello dei trafficanti del Sinai è un business criminale che ha appena cinque anni di vita: le prime rivelazioni risalgono al 2009. Ma sta decollando a ritmi vertiginosi, nell’indifferenza di tutte le democrazie occidentali. I primi riscatti richiesti alle famiglie dei rapiti e torturati erano attorno ai 1000 dollari, poi un improvviso rialzo a 30 mila, fino a 40 e persino 50 mila, in qualche caso, quest’anno.

La tecnica adottata è a colpo sicuro. Si fornisce un telefono satellitare ai giovani in fuga, per far loro chiamare i parenti lontani. Difficile trattenere le lacrime, difficile camuffare la sofferenza: le famiglie entrano nel panico, organizzano raccolte di denaro che vengono estese alle comunità nazionali presenti all’estero, in Canada, negli Stati Uniti, in Europa, e i soldi arrivano alla fine in alcuni conti correnti che debbono rimanere segreti. Chi rifiuta il telefono lo fa per evitare un dolore straziante ai propri cari, ma sa di andare incontro alla morte. In questo business ognuno ha il suo ruolo: dai beduini, tenutari delle case di tortura, ai poliziotti infedeli libici ed egiziani, fino agli  eritrei emigrati che affiancano i trafficanti tradendo i loro fratelli.

Le storie presenti nel libro sono aggiornate alla tragedia dei 366 morti di Lampedusa. Quella di Berhan, ad esempio, nome che in tigrino significa luce, fuggito dall’Eritrea a 15 anni per evitare di essere arruolato come bambino soldato, torturato nel Sinai, fuggito attraverso Egitto e Libia e poi salito il 3 ottobre sul barcone della morte, e sopravvissuto miracolosamente al naufragio. A Lampedusa le autorità italiane non volevano che i giornalisti raccogliessero la sua storia. È stato rilasciato assieme ad altri a Roma, e ora deve difendersi dalla polizia. Un gruppo di superstiti compatrioti, catturato in Germania, è finito in prigione.

Le scrittrici danno voce alla protesta di Giusi Nicolini, sindaco di Lampedusa, per la figuraccia del nostro governo, che aveva promesso funerali di Stato e poi si è ridotto a organizzare una semplice commemorazione senza parenti e senza superstiti, alla presenza, denunciata con forza da don Mussie Zerai, il presidente dell’Agenzia umanitaria Habeshia, dell’ambasciatore eritreo: il rappresentante ufficiale di quel paese da cui le vittime fuggivano e dove ogni cerimonia di cordoglio è stata vietata.

Ci sono donne che raccontano la violenza sessuale subita nel Sinai, mani legate, bocca tappata e benzina cosparsa sui capelli fino a bruciarli. Ma la storia che più colpisce è forse quella di un anonimo trentottenne eritreo. A 12 anni viene mandato in guerra assieme ai suoi tre fratelli contro l’Etiopia, ma torna vivo solo lui. L’Eritrea ottiene l’indipendenza, ma lui viene messo in galera “perché parlava con la voce troppo alta”. Un anno e mezzo in una fossa sotto terra, senza luce, col cibo che gli veniva buttato dall’alto. Poi una seconda, una terza condanna. Allora prende per il collo una guardia, ruba il fucile, fugge nel portabagagli di un’auto. Fuori città chiama la moglie: «Portami le ragazze, tu resta con i bambini». Ha due figlie di 15 e 12 anni, e vuole che evitino il servizio militare, previsto in Eritrea anche per le donne. Fugge con le figlie, viene catturato dai trafficanti e messo in un campo di detenzione. Sviene. Le violentano davanti ai suoi occhi quando si risveglia, cosa che avverrà molte altre volte. La più grande rimarrà incinta. Organizza con la famiglia una raccolta di fondi per liberare almeno lei. Invece mandano via lui. Finisce in un ospedale di Tel Aviv, viene a sapere che le ragazze sono vive, chiede l’elemosina tra i rifugiati per raccogliere fondi, li spedisce. Ma le ragazze non verranno liberate. E adesso è sempre lì, in Israele, tra i profughi. E si sente un padre degenere.

“In questo libro si attenta alla dignità e all’onore di questa gente, pubblicando le loro storie”. Ne sono coscienti, le autrici. Ma l’obiettivo è squarciare quella “globalizzazione dell’indifferenza” di cui ha parlato in luglio papa Francesco nella sua visita a Lampedusa. Il rapporto ha una parte politica, che mette sotto accusa l’Europa, e delle linee propositive sul ciò che ciascun paese dovrebbe fare. Ma è proprio sull’impatto emotivo che gioca molte delle sue carte. Andrebbe perciò portato al più presto in tutte le scuole.