Per quattordici anni ha fatto l'elettricista a Milano, senza violare la legge o ispirare sospetti. Poi è tornato nel suo paese, la Siria, per partecipare alla rivolta contro il regime. Ed è diventato protagonista di uno degli episodi più crudeli di questa guerra civile: l'esecuzione di sette soldati governativi, massacrati con raffiche di mitra alla testa e gettati in un pozzo, rivelato da un filmato che ha fatto il giro del mondo. Lo rivela un'inchiesta realizzata da L'Espresso e da Amedeo Ricucci per Tv7, il settimanale del Tg1, che trasmetterà il racconto per immagini stasera alle 23.35.
Quando il 5 settembre scorso il video rilanciato dal "New York Times" è stato diffuso sui media mondiali, nessuno ha notato che nel plotone degli esecutori c'era anche Haisam S., 41 anni, ufficialmente residente in Italia dal 1998. Un personaggio già individuato dalle nostre forze dell'ordine: «Haisam era stato messo sotto attenzione da parte delle forze di polizia dopo l'assalto all'ambasciata siriana di Roma, insieme ad altri connazionali, avvenuta il 10 febbraio 2012», dice Claudio Galzerano, dirigente della divisione antiterrorismo internazionale della Polizia di Stato. «Lavorava e viveva in provincia di Milano e prima dello scoppio del conflitto siriano era un personaggio che non si era mai evidenziato né sotto il profilo politico né sotto quello politico-religioso».
Andare a combattere nel proprio paese non è configurato dai paesi occidentali come un reato, ma lo diventa quando vengono commessi crimini di guerra. «Sicuramente queste persone possono venire denunciate per le loro attività. E mi riferisco al fatto che se compiono atti di violenza indiscriminata, ad esempio contro la popolazione civile, per la legislazione italiana questo costituisce sicuramente un reato», sottolinea il funzionario. Haisam S. non è partito da solo. Insieme a lui, a fine aprile 2012, dalla provincia di Milano partono altri due ragazzi: A.B., 34 anni, rivenditore di auto usate, e A.C., 26 anni. Siriani che imbracciano le armi contro un regime sanguinario e criminale.
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«Quelli che vanno giù a combattere sono visti dalla nostra comunità come dei patrioti, perché difendono i civili dai bombardamenti e combattono il regime, un regime totalitario che ha soffocato la rivolta nel sangue», dichiara Omar, attivista milanese del Coordinamento dei Siriani Liberi. «Haisam lo conoscevo, veniva con noi alle manifestazioni; una persona molto brava con degli obbiettivi in testa. L'ho incontrato anche lo scorso gennaio, quando è rientrato a Milano per dare una mano nel portare in Siria un carico di aiuti umanitari. Ma dopo aver visto quel video mi ha molto deluso. Questa non è rivoluzione, perché non si può uccidere una persona imprigionata senza un processo, senza sapere che ha fatto. Alla fine quello che muore è un siriano anche lui, è un figlio della tua stessa patria. E' sbagliatissimo. Ed è contro l'Islam. Bisogna dimostrare ai soldati del regime, di cui molti costretti e altri aspiranti sostenitori, che l'opposizione è buona, e non una sorta di clone del regime di Assad».
L'uomo avrebbe raggiunto la zona di Idlib, ricongiungendosi con la Firqa Suliman al-Muqatila, anche se i vertici dell'Esercito Libero Siriano hanno negato il coinvolgimento della loro brigata addossando, invece, le responsabilità al gruppo salafita-jihadista Jund al-Sham, branca siriana del famigerato movimento terroristico nato all'interno del campo palestinese di Ain al-Hilwe a Sidone, in Libano. Il gruppo è comandato da Abdul Samad Issa (aka Abu Suliman), detto anche 'lo zio'. Il suo aiutante infatti è suo nipote, Mahmud Issa, (conosciuto come Abu Abd al-Rahman) e altri membri della stessa famiglia sarebbero presenti nel gruppo, che opera nel nord della Siria nelle zone di Bab al-Hawa, Harem, Idlib, Ma'arat al-nu'man. Difficile capire di chi sia la responsabilità, se gruppi estremisti o una brigata regolare, in una guerra dove ci si combatte (anche all'interno dello stesso fronte) a colpi di disinformazione e dove il regime di Assad utilizza specialisti della manipolazione utilizzando soprattutto il web per creare maggiore confusione mediatica e diffondere false notizie. Una pratica utilizzata anche dal regime di Gheddafi e dalla sua controparte di Bengasi durante la guerra civile che ha sconvolto la Libia nel 2011.
Difficile giudicare da fuori dinamiche di ordinaria crudeltà in quella terra segnata da una guerra civile che imperversa da più di due anni. E non ci si deve dimenticare che la dittatura di Assad pratica quotidianamente questi orrori. «Ci sono siriani che sentono il desiderio di andare a lottare per la propria patria, e penso che sia una cosa legittima. Noi abbiamo un regime che è finanziato da Iran, Russia e Hezbollah, mentre dall'altra parte abbiamo l'Esercito Libero che è stato completamente abbandonato», aggiunge Shadi, attivista siriano. Forse è stata questa la motivazione che ha spinto il 23enne genovese Giuliano del Nevo, convertito all'Islam sunnita, a trovare la morte in combattimento lo scorso 18 giugno a Qusayr, a ridosso del confine libanese. Mohamed Nour Dachan, presidente emerito dell'Unione delle Comunità islamiche in Italia (UCOOI) e rappresentante del Consiglio Nazionale Siriano, minimizza. «Questa persona (Haisam, ndr.) non la conosco e comunque il dramma di un popolo come quello siriano, con 110mila morti fino ad oggi, non può essere messo alla pari con degli sbagli di singoli che noi comunque condanniamo. Quelli che vanno a combattere sono pochi; tanti invece quelli che fanno le missioni umanitarie portando medicinali, cibo, vestiti e giocattoli. Il nostro paese è demograficamente giovane e abbiamo tutti i volontari che vogliamo in Siria».
I siriani residenti in Italia, rientrati in patria a combattere, sono nell'ordine di alcune decine. Un piccolo numero se paragonato a paesi come Olanda, Francia e Inghilterra. «Sicuramente sono personaggi che sono stati spinti da motivazioni di rivincita contro il regime di Assad e si sono arruolati in organizzazioni combattenti», spiega Claudio Galzerano, aggiungendo che di questi non tutti finiscono in brigate qaediste o salafite. Molti entrano in formazioni regolari dell'Esercito Libero Siriano. Il problema, però, non riguarda il fatto che queste persone stiano combattendo adesso, ma il loro possibile rientro in Italia. Un allarme che preoccupa tutta Europa: si crede che siano almeno seicento, provenienti da 14 paesi, i cittadini comunitari che si trovano attualmente in Siria tra le fila delle formazioni armate anti-Assad. I gruppi più numerosi provengono da Inghilterra (tra le 28 e le 134 unità), Francia (da 30 a 92), Olanda (da 5 a 107), Belgio (da 14 a 85), formando un contingente che si attesta dal 7 all'11% del totale dei combattenti stranieri in Siria (circa 5mila).
«I numeri diffusi a livello europeo sono più alti per un motivo specifico: in Italia la comunità siriana è molto piccola, non superiamo le 4 mila unità, mentre all'estero le comunità siriane, o quelle particolarmente sensibili al conflitto in Siria, sono molto più numerose. Il pericolo che questi combattenti una volta rientrati costituiscano un problema è molto sentito da chi si occupa di sicurezza non solo in Italia, ma anche a livello europeo e di tutti i paesi occidentali, anche perché alla luce delle esperienze vissute dalla guerra in Afghanistan e precedentemente dal conflitto in Bosnia ci ritroviamo elementi che sono fortemente motivati dall'impegno militare e che possono rientrare per compiere attività illegali», conclude il dirigente del Dipartimento Centrale della Polizia di Prevenzione (ex UCIGOS). In questo senso, le forze dell'ordine e gli organi di sicurezza comunitari europei sarebbero orientati a bloccare questi elementi fuori dai confini dell'Unione, evitando così il loro rientro nei rispettivi paesi di provenienza. Resta difficile però monitorare e bloccare singoli individui, molti con passaporto comunitario, divenuti esperti nella fabbricazione di esplosivi, uso di armi e tecniche di guerriglia.
Mondo
27 settembre, 2013Uno dei guerriglieri siriani protagonista del video choc sul massacro dei soldati proveniva dall'Italia. E insieme a lui altri sono partiti dal nostro paese per la guerra civile. Ora le polizie temono il loro rientro in Europa
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