E' a colpi di sentenze che si consuma negli ultimi mesi lo scontro tra Madrid e Barcellona. Sentenze che il governo catalano cerca di dribblare come l'ultimissima, in cui il Tribunale costituzionale definisce illegale la consultazione del 9 novembre e ne decreta la sospensione. Decisa a proseguire l'affondo contro il governo centrale, la Generalitat ha però confermato l'appuntamento e al tempo stesso ha a sua volta denunciato Madrid per “violazione dei diritti fondamentali”.
Ma questo è solo un ultimo capitolo del braccio di ferro tra la regione autonoma e il governo centrale. Il precedente risale al 29 settembre quando la stessa Corte si era pronunciata per la sospensione del reale “referendum per l'indipendenza” indetto dal Parlamento catalano pochi giorni prima.
E' a quel punto che la Generalitat ha trasformato l'appuntamento del 9 novembre in una “consultazione partecipativa”, mantenendo però invariato il quesito. Per Barcellona lo svolgimento della consultazione rappresenta “la garanzia della libertà di espressione” degli oltre 7 milioni e mezzo di abitanti della regione.
I catalani, sostengono i vertici della Generalitat, hanno il diritto di esprimersi, proprio come hanno avuto la possibilità gli scozzesi. Un'esigenza che nella comunità autonoma si è cominciata a concretizzare già nel 2009, quando il comune di Arenys de Munt istituì un referendum non vincolante sulla propria autodeterminazione.
Nonostante la consultazione non avesse alcuna valenza giuridica, l'esempio della cittadina venne seguito nei due anni successivi da altre 554 località e grandi centri urbani, tra cui Barcellona. Lo strappo definitivo con Madrid è poi arrivato nel 2010 dopo che la Corte Costituzionale spagnola ha modificato il nuovo statuto di Autonomia, soprattutto sugli aspetti relativi la lingua, la giustizia, l'istruzione e le politiche fiscali. La sentenza ha inoltre dichiarato illegittima la possibilità per la Catalogna di auto-definirsi una nazione, come previsto dallo statuto approvato da un referendum quattro anni prima.
Per protesta migliaia di catalani sono scesi nelle piazze scandendo lo slogan Som una nació. Nosaltres decidim. (Siamo una nazione. Noi decidiamo), dando vita ad una manifestazione considerata “senza precedenti”.
Nel gennaio del 2013 poi grazie al risultato elettorale degli indipendentisti, il Parlamento catalano è tornato a ribattere la stessa strada, ed ha approvato una dichiarazione di sovranità, incaricando il governo del compito di aprire le trattative con Madrid per un referendum di autodeterminazione. Ma dal governo centrale la risposta è stata di chiusura totale, seguita poi da una nuova sentenza di bocciatura della Corte costituzionale della dichiarazione di sovranità della Catalogna.
Un braccio di ferro che in questi anni è stato alimentato anche dal rifiuto del premier Mariano Rajoy di discutere sui nuovi accordi fiscali tra la Spagna e la Catalogna. La crisi degli ultimi anni ha acuito le tensioni considerando che alla Catalogna a differenza delle altre comunità autonome come Paesi Baschi e a Navarra, non viene concessa l'autonomia fiscale.
La Catalogna verserebbe a Madrid più di quello che riceve: ogni anno circa 12 milioni di euro, pari al 6% del PIL della regione autonoma. Un discorso utilizzato anche dal presidente Artur Mas che attribuisce la colpa della grave situazione economica, che ha portato a tagli sopratutto di sanità e servizi sociali, al contributo eccessivo versato al governo centrale.
Ma il PP mantiene nei confronti di Barcellona la linea dura, evitando qualsiasi forma di trattativa. Il PSOE, all'opposizione, lavora invece a una riforma istituzionale di matrice federale che ha ben poche chance di essere presa in considerazione. I socialisti sono piegati tra crisi interna e perdita di consensi.
Sul fronte catalano il processo partecipativo anche se è diventato meno incisivo è ormai imprescindibile soprattutto per il presidente Artur Mas. Il leader catalano negli ultimi tre anni ha investito tutto nella battaglia per l'indipendenza. Ora l'urgenza di portare a casa un risultato è stata accelerata dagli scandali in cui è coinvolto Jordi Pujol, ex storico leader di CIU (Convergenza e Unione), il partito di Artur Mas.
Ma questa battaglia rischia di avere delle ricadute pesanti in Catalogna e la via delle elezioni anticipate è sempre più probabile. Oltre a deteriorare le relazioni con il governo centrale, il processo secessionista sta minando la stabilità della Generalitat catalana.
All'interno delle correnti del partito CIU emergono malumori. Al tempo stesso dopo due anni ERC, Esquerra Repubblicana, dichiara tramontato il patto con CIU, partito di maggioranza del governo catalano guidato da Artur Mas. Oriol Junqueras, leader ultra-indipendentista di ERC, preme per la convocazione del voto anticipato per costituire poi una maggioranza che imponga a Madrid dei negoziati che portino all' indipendenza. “Se lo Stato spagnolo non accetterà – minaccia il leader di ERC - Barcellona non si assumerà il peso del debito e la Spagna entrerà in una fase di default”.
Nel panorama politico catalano, in cui predomina lo spirito secessionista, c'è però anche chi si oppone allo scontro con Madrid. Albert Rivera, leader di Ciutadans, piattaforma civica fondata da un gruppo di intellettuali contrari al nazionalismo catalano, sostiene che “Accada quello che accada il 9N, il danno è già stato fatto”. Secondo Ciutadans il processo per la secessione ha finito per dividere la società catalana. “Chiedono di scegliere tra essere catalano o spagnolo – ha sottolineato Rivera – ed è una questione che non può che frammentare la società trasformando la Catalogna in un laboratorio identitario”.
Una sensazione di disagio che si riflette anche nei recenti sondaggi tra i cittadini catalani, dove il 78% degli intervistati dichiara “urgente” un accordo tra governo centrale e la Generalitat sul futuro status della regione autonoma. Una risposta che non arriverà certamente il 9N.