Israele vuole realizzare il primo polo mondiale della cybersecurity. Per difendere i suoi confini digitali, ma anche per confermarsi come la nuova Silicon Valley
Il sole scotta già di prima mattina a Beer Sheva, ultima città israeliana prima che il Negev inghiotta tutto sino a sbucare sul Mar Rosso, a Eilat. Poco fuori dalla città, c’è aria di grandi cambiamenti. Gli operai sembrano tante formichine, in movimento perpetuo tra la metropolitana di superficie, l’università e la vasta spianata incolta che è il cuore pulsante del mega-cantiere. Il deserto già incalza, poco più in là.
C’è un solo edificio realizzato, dei sedici che entro quattro anni daranno vita a CyberSpark, il nuovo Parco tecnologico destinato a estendersi su 23 ettari. Dentro il Building #1 sono al lavoro una dozzina tra startup, compagnie e multinazionali: come
EMC, leader mondiale nello stoccaggio dei dati. Al di là della ferrovia, l’
Università Ben Gurion non ha alcuna intenzione di accontentarsi dei suoi ventimila studenti e progetta un nuovo, consistente ampliamento. Intanto, ha avviato un
master in Cybersecurity con decine di iscritti. Più a sud, l’Israeli Defence Forces si prepara ad allestire due campus: uno tutto tecnologico, l’altro d’intelligence.
Eccoli qui, i tre protagonisti del progetto: il mondo accademico, quello militare, quello imprenditoriale. Il tutto, sotto la regia del governo di Gerusalemme che punta a creare un ecosistema virtuoso di ricerca e sviluppo, con l’obiettivo più ambizioso che Israele si sia posta negli ultimi anni: fare di Beer Sheva il primo polo mondiale della cybersecurity. Obiettivo per così dire glocal, visto che si tratta anche di garantire la sicurezza dei propri confini digitali, dopo avere speso così tanti soldi e risorse per cercare di assicurarsi quella terrestre e aerea.
“Il futuro di Israele è nel deserto del Negev”, profetizzò nel lontano 1955 il suo padre fondatore, Ben Gurion. L’attuale primo ministro Netanyahu sembra credergli. Anche per questo,
sposterà qui 30 mila uomini dell’esercito (o meglio di Tsahal, la sua élite), un gran numero di basi e infrastrutture militari ora situate nell'area costiera e, parrebbe, anche la celebre Unit 8200, il corrispettivo della NSA americana, specializzata negli “attacchi preventivi”. Il rapporto uomo-territorio muterà: adesso, nel deserto (che copre il 60 per cento del paese) abita soltanto l'otto per cento della popolazione.
“Noi vediamo un grande potenziale nel futuro parco tecnologico. Il progresso non si può garantire senza un’adeguata cornice di sicurezza” spiega Tom Ahi Dror, project leader di CyberSpark che ci riceve a Beer-Sheva assieme a un rappresentante dell’Ufficio di gabinetto di Netanyahu.
[[ge:rep-locali:espresso:285495979]]Certo, Israele non è certo la sola a preoccuparsi di sicurezza cibernetica e informatica. Che questa sia, già oggi, la madre di tutte le battaglie, lo dicono i fatti. Un solo motore di un jet che compia un volo transatlantico, diciamo un Londra-New York, produce - in quelle poche ore - 20 terabyte di dati. Big data, appunto. Che finiscono sempre più nel cloud computing, la Nuvola. Una dimensione apparentemente inafferrabile ma che di etereo non ha nulla, perché gli hacker arrivano anche lì, forse ora più di prima. Lo sviluppo delle tecnologie digitali ha cambiato dimensioni e livello del gioco di sempre: guardie e ladri.
Lo spionaggio 2.0 ha molti volti. Compreso quello (ufficialmente rassicurante) del “Datagate”, e il
Pulitzer assegnato a Guardian e Washington Post ne è un'indiretta conferma. Sapere è potere, da sempre. Cambia solo la declinazione con cui la conquista delle informazioni si realizza: ormai,
tutto si gioca sulla Rete. Bisogna difendersi da Paesi ostili, proteggere le proprie infrastrutture. Tutto può accadere, senza adeguate contromisure: un black-out al sistema d’approvvigionamento elettrico, la manomissione degli acquedotti, il furto di interi archivi. E poi ci sono i brevetti, i segreti industriali e commerciali. Anche le multinazionali sono sotto perenne minaccia d’attacco.
Ma non c’è solo il Grande Gioco: alla base della piramide ci siamo noi, cittadini digitali. Ormai schedati, anche per colpa nostra: per la scarsa attenzione che diamo alla privacy, per la quantità di nostri dati che rendiamo disponibili in rete, per la facilità con cui consentiamo che si ricavino i nostri profili. Quante informazioni contiene il nostro smartphone, un tablet, un computer? Banche, assicurazioni, sistema sanitario, transazioni in rete sono i nuovi giacimenti. Assieme ai Big Data immagazzinati a ritmo continuo dai colossi di Internet: Facebook con il suo miliardo di utenti, Google, LinkedIn e via via tutti gli altri.
Nella
darknet, quella porzione di rete che sfugge a ogni controllo e possibilità di rintraccio, c’è chi vende a 5000 dollari o giù di lì i malware - “software malvagi” - che consentono di rubare migliaia di dati personali, a partire dal saccheggio delle carte di credito e degli account bancari.
“I nuovi hacker non sono più ragazzini smanettoni, ma veri e propri geni, spesso inquadrati in organizzazioni complesse. Scovarli è quasi impossibile, dialogano solo tra di loro. E si intrufolano in ogni varco. Con nuovi sistemi di pagamento virtuale come
Bitcoin, ad esempio, la cosiddetta reverse engineering non funziona. Per sconfiggerli c’è un solo sistema: pensare come loro” chiosa Harel Ram, manager di
RSA. Acquisita da EMC (nella foto sotto, il CEO Joe Tucci) nel luglio scorso, è la branca che garantisce la sicurezza del software del colosso americano che in Israele ha una sede strategica, e che per prima ha creduto in CyberSpark.
“Ci sentiamo un po’ pionieri di questo progetto” spiega Maya Hofman Levy, responsabile del Centro d’eccellenza EMC di Beer Sheva “ora è importante che arrivino anche gli altri”.
E gli altri arriveranno: Ibm e Deutsche Telekom già collaborano con la BGU, l’Università Ben Gurion che lavorerà a stretto contatto con il Parco tecnologico. Il gigante dell’aerospaziale Lockheed Martin ha siglato a gennaio
un accordo per essere della partita. Google, Microsoft, Cisco e altre multinazionali già presenti nei distretti tecnologici di Tel Aviv e Haifa pare si aggregheranno presto. E poi ci saranno loro, i golden boys d’Israele. Istruiti nell’esercito, destinati a transitare per l’università prima di fondare la propria startup, secondo un modello che ha fatto del Paese – e di Tel Aviv in particolare – la nuova Silicon Valley, con il
record mondiale di venture capitalist (quelli che ci mettono i soldi) e di under 30 impegnati nel settore. Che l’esercito israeliano fornisca un know-how tecnologico di valore assoluto, lo raccontano storie come quella di Yair Cohen, l’ex generale della Unit 8200 ora manager di
Elbit Systems, tra le prime holding digitali israeliane a espandersi fuori dai propri confini. Oppure quella ancor più incredibile di Mickey Boodai, altro ex della Unit 8200 e fondatore di Trusteer, società specializzata nella protezione delle infrastrutture strategiche dalla minaccia del cyberterrorismo: nata dal nulla, e
rivenduta a IBM per oltre 800 milioni di dollari.
Israele vanta la più alta densità mondiale di startup tecnologiche: una ogni 1844 abitanti. Intuito, spirito d’impresa, ma anche un governo che ci crede. Oltre il 4,4 per cento del PIL interno israeliano è destinato alla ricerca, concentrata su alcuni settori strategici: dall’ICT alle bio e nanotecnologie, dall’aeronautica alle tecnologie ambientali ed energetiche. Il governo di Gerusalemme ha messo in piedi un complesso
sistema di aiuti alle imprese, che nel settore Ricerca e Sviluppo concede contributi a fondo perduto dal 20 al 50 per cento dei costi d’avviamento. Risultato: un budget annuale di 400 milioni di euro destinato a oltre mille progetti di 600 aziende. Per il parco tecnologico di Beer Sheva, ad esempio, è stato garantito a EMC – che già occupa lì cento dipendenti, dei mille presenti in tutto il Paese - l’abbattimento del costo del lavoro con un piano di sussidi quadriennale che copre il 40 per cento delle spese per il personale.
E’ la cosiddetta Startup Nation, e per respirarla basta farsi un giro al
Google Campus alla periferia est di Tel Aviv. Oppure alla Library, la vecchia biblioteca di Jaffa trasformata in una fucina di idee in coworking. O ancora, tra gli edifici di Rotschild Avenue nel cuore della “White city”, capitale mondiale dello stile Bauhaus, dove hanno la propria sede decine delle 1200 compagnie hi-tech israeliane. Nel ranking mondiale di
Startup Genome, solo la Silicon Valley precede Tel Aviv.
Anche l’Italia, quarto partner commerciale di Israele dopo Usa, Cina e Germania, è interessata al modello israeliano: due anni fa, il governo Monti firmò un accordo per favorire le sinergie tra le nostre aziende e le imprese del distretto hi-tech di Tel Aviv, mentre solo pochi giorni fa il ministero dello Sviluppo economico ha varato – sulla scorta del modello israeliano - una normativa che semplifica il
finanziamento diretto alle startup italiane innovative. E a novembre, molte nostre imprese saranno a Tel Aviv per
HLS Conference 2014, fiera mondiale della cybersicurezza.
A meno di due ore di macchina da Tel Aviv, le formichine di Beer Sheva lavorano alacremente, trasportando materiali da un luogo all’altro: il secondo dei 16 edifici che comporranno il Parco tecnologico avanzato sarà inaugurato il prossimo anno. Sopra la loro testa, probabilmente, i droni si muovono alla stessa velocità, fiutando l’aria e nuove minacce.