Cinque anni fa il terremoto fece più di 200 mila morti. Una catastrofe a cui seguì l’epidemia di colera. Ma ora il piccolo paese caraibico prova ?a costruire un futuro nuovo. Tra mille problemi, follie e speranze
Oltre quattromila persone marciano per le strade di Port-au-Prince: La Saline, Bel-air, Sans-fil, i sobborghi e il centro città, dove cinque anni fa il terremoto seminò morte, oggi diventano il palcoscenico in cui la società haitiana rappresenta il ritorno alla vita. La protesta sale, la gente continua a unirsi al corteo che, come un lungo tentacolo, invade le strade della capitale. I cori non si fermano, i corni accompagnano i canti, i tamburi scandiscono il tempo e i cittadini della capitale haitiana si tengono abbracciati come un “Quarto Stato” di Pellizza da Volpedo in cromature caraibiche. Sotto i cappelli di paglia, nelle rughe dei volti cotti dal sole e nei calli delle mani, traspare l’orgoglio che trasforma in avvenire l’umiltà degli ultimi. E si sposano fierezza e rabbia, generando così il ritratto di un popolo che rivendica il diritto alla speranza, per troppo tempo negato.
[[ge:rep-locali:espresso:285142230]]Poi la protesta si ferma, proprio a pochi metri dal palazzo presidenziale dove la folla urla la propria opposizione al governo del presidente Martelly e invoca nuove elezioni. Jean Luis Etzer, uno dei dimostranti, grida: «Prima il terremoto, poi il colera, ora la ricostruzione. Abbiamo sofferto ma la vita è sempre andata avanti. Adesso non vogliamo più un governo di dittatori, vogliamo democrazia e avvenire per Haiti!». Dalle parole dell’uomo trapela quella che è la situazione haitiana a cinque anni dal terremoto: un bivio, che conduce da una parte verso la strada di ripresa che il Paese ha seguito sino ad oggi, ma dall’altra verso la crisi politica che minaccia di mettere in ginocchio ancora una volta l’isola.
Sono passati cinque anni esatti da quel 12 gennaio, dal terremoto di magnitudo 7.0 che distrusse Haiti provocando più di 200 mila morti, altrettanti feriti e due milioni di sfollati. Il Paese, oggi guidato da Michel Martelly, si trova in un momento di impasse politica. “Sweet Mike”, il nome d’arte che l’attuale Presidente utilizzava quando era un musicista di kompas, sta posticipando le elezioni per il Parlamento e per i governatori locali. Le elezioni legislative avrebbero dovuto riguardare i due terzi del Senato, la Camera e diversi amministratori comunali. Sebbene a metà dicembre si sia dimesso il primo ministro Laurent Lamothe e nonostante la creazione di una commissione consultiva che dovrebbe favorire l’uscita dalla situazione di stallo, il fatto che non sia stata decisa una nuova data per le elezioni fa temere che si verifichi un vuoto politico. Il Parlamento verrebbe sciolto e il Presidente si troverebbe a governare per decreto, concentrando così ogni potere nelle proprie mani.
Se da un lato, quindi, la tensione politica e la paura di una deriva autoritaria stanno caratterizzando la commemorazione del sisma, dall’altro lato Haiti celebra il ricordo attraverso un ritorno corale alla vita. A dimostrarlo anche i dati: del milione e 800 mila profughi dislocati in campi, oggi all’interno delle tendopoli ne restano soltanto 100 mila; l’Undp (United Nations Development Programme) rivela che dalle strade è stato rimosso il 97 per cento dei 10 milioni di metri cubi di detriti; anche l’epidemia di colera, che dal 2010 al 2014 ha fatto registrare 700mila casi e oltre 8.650 decessi, nell’ultimo anno si è notevolmente ridimensionata: 132 le vittime e 15 mila gli ammalati.
«La città era rasa al suolo, una nube di polvere di cemento copriva una distesa di macerie, lingue di fuoco si alzavano dalle pompe di benzina, l’odore di morte impregnava l’aria e i cani non smettevano un solo minuto di abbaiare. Molto è stato fatto dopo il terremoto, gli aiuti internazionali sono stati fondamentali, ma la ricostruzione è merito degli haitiani che hanno dimostrato di voler tornare a ogni costo alla normalità»: a rievocare le immagini del 12 gennaio 2010 è Fiammetta Cappellini, capo progetto dell’Avsi, ad Haiti dal 2006 e ora impegnata in attività improntate al recupero lavorativo di ragazzi legati a bande armate e al supporto degli artigiani locali.
Tra questi anche Ebens Bocage, 24 anni, che nei 54 secondi che fecero tremare la terra perse la casa e il laboratorio dove realizzava sculture in ferro. Oggi, tra il fumo dei barili di latta che vengono bruciati per poi essere lavorati e mentre modella gli angoli di una scultura floreale, racconta: «Ho perso tutto. Pensavo che non ci sarebbe stato più futuro. Ma poi ho iniziato a lavorare nell’atelier, ho ripreso a realizzare opere e a venderle». Tra le statue in ferro battuto, Ebans ha dato vita anche a una madre con i propri figli: «Una scultura per commemorare il terremoto. Non una rappresentazione della distruzione, ma della rinascita. Perché anche dopo la peggior catastrofe bisogna rialzarsi e guardare avanti».
L’officina in cui Ebans lavora è all’interno di uno dei quartieri considerati tra le aree più pericolose dell’emisfero occidentale: Cité Soleil, terra in cui la linea che separa legge e fuori legge è impalpabile, ma dove sta iniziando a germogliare la promessa haitiana. Vicoli e baracche, macerie e fogne a cielo aperto, maiali e cani che rovistano nei canali di scolo e bambini scalzi che corrono per le strade. Le bande armate si contendono il traffico di armi e cocaina e un’auto perlustra le vie, a velocità ridotta: l’autista osserva il movimento di ogni passante e sul sedile del passeggero, a portata di mano, una Glock semi-automatica. Poi, come un miraggio, il Jadin Tap-Tap, un orto comunitario, un’oasi di verde tra un deserto di rovine. Realizzato nel 2010, dove oltre 100 cittadini lavorano collettivamente e i prodotti della terra sono di chi ha bisogno. «Qua tutto è basato sulla condivisione. Chi lavora lo fa per la comunità e volontariamente. E chiunque può prendere i prodotti: gratis e in base alle necessità» racconta Franz François, responsabile del progetto, che aggiunge: «Vengono a lavorare ragazzi che hanno fatto parte di gang; poi l’idea è quella di dare non solo una risposta al bisogno di nutrimento, ma insegnare che il lavoro, l’unione e la solidarietà sono i mezzi per lasciarci alle spalle, senza dimenticarlo, un passato di dolore».
Ed è proprio la volontà di ricordare che accompagna la rinascita. Si stagliano infatti, contro la luce del tramonto, i resti della cattedrale di Port-au-Prince. Nessun piano di restauro in programma, ma la risolutezza nel far mostra delle macerie, perché la memoria sia la base della nuova ricostruzione. E così, ai piedi delle rovine, come per contrappasso, i brulicanti mercati della capitale, travolti dall’odore di banane fritte e immersi nel traffico assordante, diventano l’esaltazione del ritorno alla vita. Bancarelle e venditori ambulanti, da Centre-ville, costeggiando il lungo mare, sino a Waf Jeremie. Ed è proprio in questo quartiere, un tempo discarica cittadina e oggi bidonville, che sono stati aperti i cantieri che dovrebbero ospitare un politecnico, un molo, degli atelier di lavoro e nuovi mercati. Operai e carpentieri vi lavorano senza sosta. «Dall’alba sino al tramonto per 600 gourdes alla giornata (10,5 euro), ma va bene, perché posso comprare riso e pollo per i miei figli»: così racconta Yoner, 35 anni, che vive nelle baracche proprio dietro alle impalcature. «Mi domando però: fino a quando potrò lavorare? Qual è il futuro per la gente come me in questo Paese che si è risollevato, ma che è sempre in bilico?» Yoner utilizza il suo caschetto da muratore come un secchio e, dopo averlo riempito d’ acqua, si sciacqua di dosso polvere e sudore; stappa una bottiglia di rum e allontana la stanchezza. Poi se ne va, tra i viottoli dello slum, dove centinaia di occhi, travolti dalle luci del tramonto, aspettano il domani.