Gli arsenali e i soldati dello Stato islamico. Gli attacchi degli aerei alleati. Ma anche la vita quotidiana nelle terre occupate dai terroristi. “L’Espresso” ha seguito, per la prima volta, i droni della nostra aeronautica in Iraq

Non cercate la linea del fronte. Non ci sono trincee, né reticolati. Da quattromila metri d’altezza si entra nel Califfato senza notare la minima differenza. La vita scorre seguendo gli stessi ritmi. Mercati, moschee, case, tutto appare simile sia nello Stato islamico che nelle province governate da Baghdad. Lungo le strade forse ci sono meno auto e meno camion, ma è uno scarto irrisorio. Gli uomini armati che circolano sono pochi, quasi sempre in piccoli gruppi, meno di cinque persone.

I segni della guerra ci sono, crateri di bombe, edifici sventrati, ma non spiccano nella geometria di questa terra. È difficile stabilire quale conflitto li abbia causati perché qui si combatte da un quarto di secolo; le ferite dei raid del 1991 si sovrappongono a quelle degli attentati terroristici e alle tracce delle ultime incursioni. Per capire da che parte si è finiti c’è un unico riferimento: le bandiere.

Quando il tricolore nazionale iracheno lascia il posto al vessillo nero, allora si è arrivati nel regno del Daesh, l’acronimo arabo che sta per Stato islamico. Sono drappi neri colossali, di dimensioni sorprendenti. Come quello enorme che sventola sul centro di un monumento, nel crocevia di una città dove il traffico procede quieto all’ombra di quel simbolo di terrore.
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I droni Predator italiani ormai sono di casa in questi vicoli, li percorrono ogni giorno, raccogliendo l’essenza di questa guerra senza precedenti nella storia. “L’Espresso” ha potuto assistere per la prima volta alle loro missioni, che da oltre un anno penetrano nella quotidianità del Califfato. Decollano da Kuwait City. E rimangono sospesi in cielo per dozzine di ore. Nessuno li nota, i loro occhi elettronici non hanno mai colto sguardi di sospetto o di paura rivolti verso l’alto. La sottile sagoma grigio chiaro li rende praticamente invisibili, mentre il motore è di un silenzio assoluto, meno di un fruscio tra le nuvole.
La copertina dell'Espresso

Così da questi apparecchi si scruta tutto, alternando visori all’infrarosso e scansioni radar che guardano nei cortili, sbirciano sotto i porticati, frugano nei vani dei pick-up, riescono persino a stabilire il contenuto delle cisterne. C’è una tettoia nel parcheggio di una vecchia officina dove qualcuno sta maneggiando tubi e arnesi. Lo zoom ingrandisce le sagome, cercando di definire cosa stiano facendo. Lavorano sodo e alcuni si rinfrescano, bagnando le keffieh arrotolate sulla testa.

Intanto il velivolo volteggia in quota, come un rapace, e si infila sotto la copertura metallica da angolature diverse. Lo fa più volte, per lunghi minuti, finché non riesce a fissare il momento in cui alcuni uomini caricano su una macchina anonima i pezzi di una mitragliera contraerea. È la prova definitiva: quello non è il laboratorio di un artigiano, ma un arsenale del Daesh.
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IN RICOGNIZIONE PER 24.500 ORE
Sono le informazioni decisive per una campagna dove si fatica a scovare il nemico. Il cielo pullula di jet, ma da terra non si sa nulla. Immagini trasmesse nella centrale di controllo che i satelliti possono girare in tempo reale ovunque, nei comandi della coalizione che combatte lo Stato islamico, nelle basi nazionali dell’Aeronautica o – volendo – nei palazzi del governo. “L’Espresso” ha potuto vedere queste ricognizioni e parlare con gli uomini che le guidano. Perché questi velivoli spia non sono robot, non agiscono automaticamente ma sono “aerei a pilotaggio remoto”: dietro ogni mossa ci sono persone, con la loro esperienza e la loro sensibilità. Ed è in questo che gli italiani fanno la differenza.

Dopo gli americani, siamo la nazione con la maggiore capacità nell’impiego di questi mezzi. Dal 2004 li abbiamo schierati in Iraq, ai tempi della spedizione di Nassiriya, in Afghanistan, in Libia, nel Mediterraneo, nel Corno d’Africa. Abbiamo accumulato 24.500 ore di ricognizioni: è come se fossero rimasti in volo per mille giorni di fila, quasi tre anni di missione ininterrotta. Sorvegliando i deserti della Mesopotamia e i mari dei pirati, le gole delle imboscate talebane e le postazioni missilistiche di Tripoli ma soprattutto città e villaggi, il cuore delle guerre asimmetriche in cui l’Occidente è stato impegnato dall’11 settembre 2001, dove vittoria e sconfitta si decidono sempre tra le case.
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Anche rispetto ai reparti statunitensi, gli italiani hanno una marcia in più. Gli Usa gestiscono centinaia di droni e hanno creato una schiera di piloti “di serie B” per manovrarli: sottufficiali che non sono mai stati al fronte, formati davanti a simulatori simili a videogiochi e che conducono i voli sul Medio Oriente rimanendo in basi dell’Arizona. I nostri invece sono piloti veri, veterani che hanno guidato ogni genere di aereo o elicottero prima di passare a questo incarico: hanno condotto azioni di bombardamento, soccorso naufraghi nelle tempeste o fatto decollare quadrimotori cargo in situazioni estreme.

Come il maggiore Paolo Castelli, comandante dei Predator tricolori: «Ricordo quando nel 1991 rimasi in piedi fino a tardi con mio padre per guardare in tv la prima notte di attacchi su Baghdad. Non avevo ancora tredici anni. Venti anni esatti dopo mi sono ritrovato alla cloche di un Tornado nella prima notte di raid sulla Libia, per neutralizzare la contraerea di Gheddafi». È il fattore umano che rende i Predator italiani diversi: «Quell’effetto di spersonalizzazione descritto tante volte parlando di droni non ci riguarda. Anche se rimaniamo a distanze di centinaia o migliaia di chilometri, per noi è come stare lassù; “sentiamo” il volo. E sappiamo cosa significa essere in una zona di guerra».
Visto dal drone 1

Nonostante disponga di soli dodici mezzi, l’importanza della squadriglia di Amendola, un grande aeroporto alle pendici del Gargano, è riconosciuta da tutti gli alleati: ci sono trattative in corso per creare qui la scuola che addestrerà tutti i piloti di droni dell’Unione europea. L’Aeronautica ha saputo costruire un suo stile nella gestione di questi ricognitori hi-tech, dove la consapevolezza conta più dei software.

Anche grazie all’interfaccia con i ricognitori Tornado schierati in Kuwait e dotati di un apparato chiamato Reccelite che può vigilare su grandi aree raccogliendo foto quasi tridimensionali di singoli edifici. Scatti che permettono di calcolare le dimensioni di porte e recinzioni, decisivi per preparare le incursioni delle forze speciali. E il nostro contributo è molto apprezzato dai comandi americani.

LA NOSTRA GUERRA
«Se protagonismo significa giocare a rincorrere i bombardamenti altrui, dico: no grazie», ha dichiarato al “Corriere” Matteo Renzi. È la linea tracciata d’intesa con il ministro della Difesa Roberta Pinotti, fornendo alla coalizione anti-Daesh gli strumenti più utili. Anche perché nella guerra contro il Califfato l’unica cosa che non manca sono i caccia, con un affollamento di squadriglie americane, francesi, inglesi e arabe. Il problema invece è trovare bersagli. Ci sono decine di aerei carichi di armi ma pochissime informazioni dal campo.
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Quasi sempre i jet occidentali tornano indietro senza attaccare nulla. E le immagini dei Predator spiegano perché. In ore di volo non si vedono postazioni militari, non si notano cannoni o carri armati. L’Is ne ha pochi, tutti catturati all’esercito iracheno durante l’offensiva di un anno fa. Tanti li ha spostati in Siria, altri li tiene nascosti nei capannoni. Ma la gran parte è stata distrutta dai raid: la statistica aggiornata a un mese fa censiva 129 tank e 356 jeep humvee “made in Usa” colpiti dal cielo. Il resto degli obiettivi presi di mira sono oltre diecimila tra “edifici”, “postazioni di combattenti”, “zone di accampamento”.

Case, cortili, tende identiche ad altre migliaia. «Non basta vederle, bisogna capirle. Riuscire a individuare dove si concentrano gli uomini armati, dove convergono i movimenti sospetti di auto e pick-up, dove ci sono reazioni particolari al passaggio dei jet», spiega un “operatore di missione”, l’altra figura chiave di questi voli. Sono osservazioni certosine, spesso settimane di lavoro per essere sicuri che una palazzina sia una base jihadista, confrontando quello che si filma con le intercettazioni delle comunicazioni di telefonini e radio.

I guerrieri con la bandiera nera non si raggruppano in caserme, ma abitano in case confiscate. Dal drone si vedono tre persone sospette uscire da una villetta. Si dirigono verso il deserto, seguiti da un ragazzino in bicicletta. Quello più “autorevole” sembra avere un’arma, ma non si riesce a distinguerlo bene. Allora il pilota vira e cambia prospettiva: ecco l’ombra netta di un fucile da cecchino, che l’uomo imbraccia spiegandone l’uso ai suoi compagni.
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UN PREDATOR VI SCOVERA'
Quella del Daesh è un’armata fluida, si raduna quando serve, colpisce e scompare. I suoi capi hanno messo insieme le tattiche per sfuggire agli aerei elaborate in vent’anni di guerriglia. Fanno tesoro delle lezioni apprese in decenni di battaglie in Afghanistan e in Cecenia, sopravvivendo alle incursioni di precisione americane e ai bombardamenti a tappeto russi. Ma soprattutto è dal 2003 che agiscono nell’Iraq settentrionale, controllando per lunghi periodi villaggi e intere città. Non sono presenze straniere: conoscono tutto e tutti.

Le falangi qaediste si sono irrobustite con i reduci di Saddam Hussein: solo nell’aerea di Mosul, lì dove è stato proclamato il Califfato, si calcolava la presenza di 110mila veterani del regime. Nella stessa regione si contano 136 gruppi tribali, di varia consistenza, e il miscuglio di una decina di confessioni religiose con la predominanza sunnita. Tra la paura delle esecuzioni e il consenso al credo fondamentalista, pochissimi in quei territori collaborano con gli alleati. E tocca ai droni rendersi conto di quello che accade.

Il Predator è lento, non ha fretta. I caccia sfrecciano a mille chilometri all’ora. Lui invece spesso non supera i cento e circola con calma su quello che si vuole osservare. C’è il tempo di pensare. Si distinguono donne e bambini, si intuisce cosa stanno facendo. Una delle missioni affidate agli italiani è proprio ricostruire “i modelli di vita”, una sorta di lettura sociologica dall’alto. Serve ad esempio per capire quali villaggi hanno aderito allo Stato islamico spontaneamente e quali invece siano controllati militarmente, il funzionamento di scuole o di uffici pubblici, quali moschee richiamano più fedeli. Serve per decifrare la forza del Califfato.
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Dall’alto i confini sono mobili, seguono linee invisibili, attraversano le città e i deserti dell’Iraq settentrionale, formando una mappa di isole perse in un arcipelago di villaggi, campi e sabbie che si confondono in continuazione. Come l’eruzione di un vulcano, che dalla capitale siriana di Raqqa si è raggrumata in due colate dirette verso Baghdad, quasi a stringerla in una morsa. Quella a nord lambisce i territori curdi. Quella centrale è più sottile, una collana di cittadine lungo la striscia azzurra e verde dell’Eufrate, che tocca Ramadi e Falluja. Negli ultimi mesi il regno delle bandiere nere si sta restringendo. Ma la strategia del Califfato è fatta di attacchi e ritirate, altrettanto rapide.

In alcune zone l’Is sembra a corto di soldati. Quattro sono stati sorpresi dal drone mentre escono da una villa con un cortile denso di alberi. Avanzano marciando con passo marziale al centro della via, ma la figura che affianca il leader è particolarmente bassa. Davanti alle immagini un dubbio si è impadronito degli ufficiali italiani: quasi sicuramente si tratta di un bambino. Un sospetto rafforzato dall’analisi delle ombre: ha in spalla un fucile sproporzionato rispetto alla sua altezza. Il drone ha seguito la pattuglia lungo le strade del quartiere, con la recluta troppo piccola che proseguiva fiera nella sua parata. Poi la squadra è entrata in un edificio, davanti al quale erano parcheggiate diverse auto e la motrice di un tir. Che è subito stato qualificato come un potenziale comando del Daesh.
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Un altro drone italiano scopre un checkpoint allestito su un’arteria verso la Siria. Hanno piantato pali con bandiere nere, due piccole e una colossale, in modo che tutti sappiano. Un solo guerriero in mezzo alla strada controlla i veicoli, osserva i lasciapassare, fa qualche domanda. Ferma decine di mezzi. Nelle pause cammina avanti e indietro, forse annoiato. Ignora di essere spiato, non sa che sono gli ultimi secondi della sua vita. Quando il traffico cala, va a ripararsi sotto il cassone di un autotreno, dove ci sono altri jihadisti. Una bomba incenerisce tutto. L’attacco è stato lanciato da un caccia della coalizione, che ha illuminato con un raggio laser il bersaglio. Ma è stata anche la ricognizione italiana a rendere possibile il raid.

Altre immagini dal fronte, nuova missione. Un Predator dell’Aeronautica si occupa di monitorare un’installazione nel deserto, protetta da un alto reticolato. Poi dal cielo piovono cinque missili, sganciati e guidati da un aereo alleato. I depositi vengono polverizzati mentre si alzano due colonne di fuoco parallele: sono pozzi petroliferi, usati per rifornire le cisterne che finanziano lo Stato islamico.

Per i piloti italiani bombardare non è un tabù. Lo hanno fatto in Kosovo, in Afghanistan, in Libia e anche in Iraq, nel lontano 1991. Allora l’abbattimento del primo Tornado fu uno choc, che spinse l’Aeronautica a cambiare priorità: meno mezzi, ma con il massimo della tecnologia, una linea condivisa dal governo fino all’adozione degli F35, che saranno dislocati proprio ad Amendola, nella stessa base dei Predator.

Oggi durante le loro ricognizioni teleguidate, pilota e operatore hanno davanti 14 schermi. Possono “fondere” le immagini della stessa figura ripresa da visori diversi, attingere a banche dati d’ogni tipo, confrontare gli scatti con quelli in archivio che ritraggono la stessa posizione nei giorni precedenti. E sfruttare al meglio una biblioteca di algoritmi. Ad esempio per cercare in un bosco - sì anche in Iraq ci sono - tutti gli oggetti di fabbricazione umana, le linee rette. Ed ecco che unendo tanti segmenti il software compone le sagome di veicoli nascosti tra le foglie.

LA PARTITA DI PALLONE
Le missioni vengono dirette da un container avvolto in una luce azzurra. Gli equipaggi si alternano nei turni di ogni volo, che in genere dura 12-14 ore. Il 28mo gruppo ha stabilito il record mondiale per i Predator: oltre 26 ore di fila, in Afghanistan, per garantire la protezione di una colonna italiana sotto tiro. Ma in Iraq è tutto molto diverso, si opera quasi sempre su zone urbane. Il Daesh è nascosto tra la popolazione, bisogna ricercare gli uomini neri e le jeep bianche una a una, spiando la sorprendente vitalità della gente anche a ridosso del fronte.

Mercati che si riempiono di banchi, negozi che aprono, scuole con gli alunni in fila. I nostri droni hanno visto anche ragazzini giocare a pallone. Dicono che in diverse zone del Califfato sia proibito e che sia prevista la pena di morte per chi guarda le partite in tv. Ma ci sono passioni che la legge coranica e il terrore non riescono a cancellare. E bambini che hanno diritto a un futuro diverso.