Dopo venti anni di aspri negoziati e tante parole al vento, 195 Paesi del mondo si apprestano a firmare il primo, vero accordo universale sul progressivo addio al carbone, al petrolio e al gas, responsabili delle emissioni di CO2 che riscaldano il pianeta

È come il pronti-attenti-via ai nastri di partenza di una corsa. La corsa del genere umano verso il traguardo di una crescita economica senza combustibili fossili, la cosiddetta “decarbonizzazione”, può cominciare. Dopo venti anni di aspri negoziati e tante parole al vento, 195 Paesi del mondo si apprestano a firmare il primo, vero accordo universale sul progressivo addio al carbone, al petrolio e al gas che – originati milioni di anni fa da sostanze organiche (e quindi basate sul carbonio) – hanno lo spiacevole effetto collaterale di produrre la CO2 che riscalda il pianeta.

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La trattativa, che si chiuderà domani ai tempi supplementari, è ancora in corso. Il testo finale dell’Accordo di Parigi – azzardiamo un nome provvisorio, in attesa di conoscere quello vero – sarà reso noto solo sabato. Prima di allora, non c’è soltanto da sciogliere qualche decina di opzioni ancora aperte, ma c’è soprattutto da risolvere una serie di passaggi-chiave, come la differenziazione (una demarcazione aggiornata fra paesi sviluppati e in via di sviluppo) e la finanza (il chi e soprattutto il quanto). Ma è ormai scontato che l’accordo è fatto.

La corsa che comincia sabato 12 (o domenica 13 dicembre 2015), non è una gara di 100 metri. E nemmeno una maratona. È una lunga marcia che, nel nome delle future generazioni, guarda fino alla fine di questo secolo. Da qui al 2100, recita il testo dell’accordo, occorre «contenere l’aumento della temperatura media globale ben al di sotto dei 2 gradi centigradi rispetto ai livelli pre-industriali e perseguire sforzi per limitarla a 1,5 gradi, riconoscendo che questo ridurrebbe sensibilmente i rischi e gli impatti del cambiamento climatico». Lo diceva la scienza, da oggi lo dice anche la politica internazionale.

«Sempre ammesso che non ci siano sorprese all’ultimo minuto – commenta Hans Joachim Schellnhuber, direttore del Potsdam Institute for Climate Impact Research – la volontà di stare “ben al di sotto” dei 2 gradi è in linea con la scienza. Ho partecipato a numerosi vertici internazionali sul clima, e un impegno di questa portata non era immaginabile».

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Ovviamente, si tratta pur sempre di una corsa a ostacoli. «Gli impegni sin qui presi dai singoli Stati per la riduzione delle emissioni – gli fa eco il collega Kevin Anderson, vice direttore del Tyndall Centre for climate change research – ci portano su una traiettoria di almeno 2,7 gradi, quindi sono assolutamente insufficienti. Affinché l’aspirazione del grado e mezzo venga realizzata, devono diventare più stringenti ben prima del 2030. Dopodiché, bisogna arrivare a zero emissioni: o entro il 2050 se vogliamo puntare a 1,5 gradi, o entro il 2070 se l’obiettivo è quello dei due. Il benchmark scientifico, è questo». Schnllnhuber, che forse è solo più ottimista sul futuro, annuisce.

Ma è possibile essere più ottimisti? La risposta è sì. Sancita da un accordo internazionale, la corsa verso la decarbonizzazione è in realtà cominciata da tempo. Solo negli ultimi sei anni – dal clamoroso fiasco della conferenza di Copenhaghen a oggi – gli investimenti in energie rinnovabili, in efficienza energetica, in nuove soluzioni per vecchi mestieri, si sono letteralmente moltiplicati. Senza bisogno di alcun colpo di pistola dell’Onu alla partenza, piccole imprese e multinazionali, metropoli e regioni, inventori e investitori, cittadini e consumatori, hanno cominciato a muovere le gambe verso un futuro decarbonizzato. In altre parole, un gran numero di entità economiche – dalla Apple che alimenta i suoi server con l’energia solare, alla famiglia che sceglie di illuminare la casa con i Led – hanno preso la rincorsa.

Lo strano gioco della diplomazia potrà aggiungere al testo, durante le prossime trattative notturne fuori tempo massimo, qualcosa di meglio o magari qualcosa di peggio. Ma un dado è tratto, una linea è segnata. «Viene riconosciuta la magnitudine dei rischi – dice Lord Nicholas Stern, l’economista che aveva prodotto un celebre rapporto commissionato dal Governo inglese – e viene riconosciuto che possiamo combinare la riduzione della povertà, lo sviluppo economico e la responsabilità climatica. È questa la chiave dello spirito positivo che abbiamo visto» al vertice di Parigi.

In ultima analisi, il segnale che arriva al mondo è chiaro: chi investe nel futuro delle energie fossili getta i soldi al vento. Le Nazioni Unite arrivano in ritardo a dare il via alla corsa di lungo periodo verso i lidi sicuri della decarbonizzazione. È assolutamente necessario che proceda a velocità sostenuta, per poi accelerare. Ma il bello, è che è assai probabile che succeda.