Le umili origini libanesi, gli amori, l’ingresso nella bella società. E un’inchiesta imbarazzante. Ecco chi è Juliana Awada, la nuova inquilina della Casa Rosada

La nuova first lady dell'Argentina è un'Evita araba

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Terminati gli otto anni di presidenza di Cristina Fernández de Kirchner, l’Argentina ha di nuovo una primera dama. Si chiama Juliana Awada, ha 41 anni e dal 2010 è la terza moglie del neopresidente Mauricio Macri. Alta, bruna ed elegante, è considerata una delle icone fashion del Paese e per le riviste patinate ogni occasione è buona per metterla in copertina.

L’ultima è stata ovviamente la vittoria del marito: dalle copertine post-elettorali, Juliana assicura che cercherà di mantenere la quotidianità familiare anche alla Casa Rosada e che affronterà il nuovo ruolo con responsabilità e gratitudine. Prima ancora che nelle urne, Mauricio Macri e Juliana Awada hanno vinto sui media, entrando nell’immaginario come una coppia bella, innamorata e invidiabile.

Con Awada, l’immagine della first-lady argentina cambia profondamente. Quanto Cristina è stata sanguigna, vitale ed energica, anche quando era la moglie del presidente Néstor Kirchner, tanto Juliana è algida, elegante e suadente. Una donna “educata per sorridere”, l’ha definita “Clarín”, il quotidiano più diffuso d’Argentina, in uno degli ultimi articoli a lei dedicati.

Se la saga dei Macri ha appassionato i media, con la storia di Franco, immigrato italiano che costruisce un impero edile, fino a vedere il primogenito diventare presidente dell’Argentina, l’epopea degli Awada non è meno affascinante. Juliana è l’ultimogenita di una coppia di umili origini. Suo padre Abraham, morto a 90 anni, nel 2012, era nato nel Libano ed era arrivato in Argentina giovanissimo, in cerca di fortuna. A trent’anni ha sposato la 17enne Elsa Esther Baker, detta Pomy. Insieme hanno creato un piccolo impero tessile, “Awada”, che controlla numerosi marchi argentini di abbigliamento per la donna e per i bambini. Questo ha permesso loro di mandare i cinque figli, Claudia, Daniel, Alejandro, Lola e Juliana, nelle migliori scuole di Buenos Aires. Juliana ha studiato al Chester College, nell’elegante quartiere di Belgrano, poi è volata a Oxford, per perfezionare il suo inglese. Tornata in Argentina, dopo un breve matrimonio con Gustavo Capello, sposato a 23 anni, ha iniziato a lavorare nell’impresa di famiglia come stilista.

Entrambi di fede musulmana, Abraham e Pomy hanno educato i figli nella libertà religiosa. Lo dice sempre Juliana, che ricorda come sua sorella Claudia sia cattolica e si sia sposata in chiesa; lo sostiene anche Alejandro, che nelle interviste dice: «Mio padre è musulmano, credente, e devoto della Vergine di Luján», la Vergine argentina più venerata.

Con Juliana, Alejandro è il più popolare degli Awada: è un apprezzato attore di cinema e televisione, protagonista di numerose telenovelas di successo e, adesso, del film “El Clan”, premiato a Venezia con il Leone d’Argento per la miglior regia e candidato dall’Argentina all’Oscar come miglior film straniero. È sempre stato vicino ai Kirchner: per il ballottaggio tra Macri e Daniel Scioli, è addirittura apparso in uno spot di sostegno a Scioli. Ha spiegato così il dissidio familiare: «Mi è successo che mia sorella più piccola abbia sposato un signore che rappresenta per me tutto quello che danneggia l’Argentina, cioè i gruppi concentrati di potere e la gestione della politica al servizio di interessi personali e privati di certi settori».

Politicamente, Alejandro è la bestia nera della famiglia: gli Awada sono sempre stati vicini ai conservatori. I loro legami con la politica sono iniziati negli anni 90: Abraham simpatizzava per il presidente Carlos Menem, tanto che fu il marito di Claudia, l’architetto Alberto Artemio Rossi, a progettare La Rosadita, la discussa residenza di Menem nella sua città natale; Alejandro Tfeli Awada, nipote di Abraham, fu invece medico del presidente.

Il punto di riferimento di Juliana è sempre stata sua madre, l’energica Pomy, con cui viaggia molto, alla ricerca di tessuti e ispirazioni. In uno dei numerosi viaggi, ha conosciuto il conte belga Bruno Laurent Barbier, con cui ha avuto una relazione di una decina d’anni e da cui ha avuto la figlia Valentina. Non si sono mai sposati, anche se lui, appena sceso dall’aereo di Air France su cui si sono conosciuti, ha detto a Pomy: «Sposerò sua figlia». Insieme hanno vissuto nel Barrio Parque, uno dei quartieri più cari di Buenos Aires, a poca distanza dalla casa di Franco Macri e da quella della prima moglie di Mauricio, Yvonne Bordeu, madre dei suoi tre figli più grandi.

Mauricio Macri e Juliana si conoscevano da anni, appartenendo allo stesso circolo sociale, ma ad avvicinarli è stata la palestra che entrambi frequentavano, il Club Ocampo. Era il 2009, amavano la stessa musica, avevano lo stesso personal trainer, per l’allora sindaco di Buenos Aires, grandi occhi azzurri e il fascino maturo del 50enne aitante, non fu difficile invitare la bella Juliana a uscire. «Non è stato un amore a prima vista, ma appena ho iniziato a uscire con lui ho capito che era l’uomo della mia vita», assicura Juliana. Quello che nessuno si aspettava è che nel giro di poche settimane Macri lasciasse la seconda moglie e chiedesse a Juliana di andare a vivere con lui. «Quando abbiamo superato la soglia di casa, mi ha chiesto di sposarlo. E per essere sicuro del mio sì, me l’ha chiesto tre volte», ricorda lei sulle riviste.

Il loro matrimonio, celebrato nel 2010, è stato uno degli eventi dell’anno e la sposa sorrideva da tutte le copertine, con un semplice vestito bianco di pizzo e in mano il libretto di famiglia, che viene consegnato ai neosposi. «Sposarsi a 36 anni non è come sposarsi a 23», assicurava lei. Undici mesi dopo, è nata Antonia, la loro unica figlia in comune. Come primera dama della Capital Federal, Juliana ha iniziato ad avere un’immagine pubblica più definita, di donna elegante, che preferisce i colori sobri e i gioielli discreti, che non ama la politica se non «come cittadina», che ha una propria autonomia e che aspetta a casa il proprio uomo, per dargli il necessario calore familiare. Macri usa chiamarla affettuosamente la hechicera, la maga, per come ha messo ordine nella sua vita disordinata di ambizioso leader politico.

In questa vita piena e serena, c’è però una brutta macchia. Qualche anno fa, la ong La Alameda, ha denunciato Awada per sfruttamento di immigrati illegali in un laboratorio clandestino di Buenos Aires. In un video, la ong dimostrava come i lavoratori potessero uscire dal laboratorio solo lasciando i propri beni come pegno, per assicurare il loro ritorno, e come vivessero in condizioni disumane. Juliana ha cercato di smarcare in tutti i modi la propria immagine dalla denuncia, ma nelle reti sociali c’è chi continua a chiamarla la “explotadora”, la sfruttatrice; il governo della città di Buenos Aires, presieduto all’epoca da Macri, ha evitato i controlli ai laboratori denunciati dalla ong e alla fine la giustizia ha indagato solo Daniel Awada, in seguito prosciolto dal magistrato Guillermo Montenegro, entrato poi in PRO, Propuesta Republicana, la formazione politica di Mauricio Macri. Per la campagna elettorale, la maggior parte dei media, simpatizzante di Macri, ha dimenticato l’accaduto e ha diffuso l’immagine di una Juliana sorridente, innamorata e gentile. «Non ho una consulente per l’ immagine», sorride lei quando le fanno i complimenti per lo stile. La sua ricetta è mescolare i prediletti Valentino, gli orologi Rolex o le borse Hermès, con i marchi locali, riciclare i vestiti già indossati e improvvisare, senza preoccuparsi troppo di cosa indosserà.

«Meno è meglio», teorizza, raccontando di quella volta che si è presentata a un party in giardino in jeans, sbagliando completamente il dress code, ma «non importa, sono una donna estremamente sicura e quando mi sento comoda nei miei vestiti, va bene». Ed è così sicura che dopo il dibattito televisivo finale tra Macri e Scioli, non ha esitato a salire sul palco e a stampare un bel bacio appassionato sulle labbra del marito, incurante delle telecamere.

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