Da mesi l'osservatorio indipendente Libya Body Count tiene il conto delle vittime dei conflitti nel paese africano. Nelle nostre mappe e grafici, ecco come si è evoluta la situazione dall'altra parte del Mediterraneo

Sono già più di 3.000 le morti violente registrate in Libia dal 2014 a oggi. È questo il risultato del conteggio portato avanti dall'osservatorio indipendente Libya Body Count, che raccoglie e pubblica costantemente i dati sulle vittime della guerra tra fazioni che insanguina il paese dalla caduta del regime di Gheddafi.

Il lavoro dell’osservatorio è una prova numerica dello strascico di violenza seguito alla "rivoluzione libica" del 2011, che assieme ai bombardamenti aerei della Nato aveva già causato in quattro mesi di guerra – secondo le Nazioni Unite – circa 15mila morti tra civili e fazioni coinvolte (anche se ci sono stime che spaziano da 2.500 a 25.000 morti, a riprova dell’incertezza dei dati).

La mappa mostra gli eventi violenti del conflitto interno alla Libia dal 2014 a metà febbraio 2015. Ad ogni luce rossa corrisponde un evento che coinvolge una o più morti violente registrate dall’osservatorio Libya Body Count. Dalla mappa emergono i punti caldi degli scontri tra cui Bengasi e Tripoli.

Come nel caso dell’Afghanistan o di altri scenari di guerra o disastro naturale, fare il bilancio delle vittime è molto complesso e i numeri che emergono sono spesso stime al ribasso.

“Non abbiamo nostri reporter: il nostro staff varia da 1 a 4 persone, a seconda degli impegni che abbiamo con le nostre famiglie. Se non ci fossero i coraggiosi giornalisti libici perderemmo la nostra fonte di dati”, racconta uno dei membri dell’osservatorio in un'intervista ai quotidiani Finegil, “siamo stati criticati sia da Alba Libica che dall'Operazione Dignità del generale Haftar e i loro sostenitori ci hanno minacciato. Quando vedono i nostri numeri ognuno pensa che sia un attacco alla sua fazione”.

L’ultimo record nelle tabelle di Lybia Body Count è quello dei 21 egiziani copti rapiti a gennaio e decapitati dai miliziani dell’Isis, di cui per scelta si riportano i nomi ma non il video propagandistico. Tra le città col più alto numero di vittime spiccano Bengasi (1615), Tripoli (537) e Kikla (181), mentre in corrispondenza di Derna e Sirte appaiono rispettivamente 89 e 72 morti violente.

Osservando i numeri nel tempo si può notare l’aumento delle vittime a ridosso dell’estate del 2014, che poi calano di nuovo con la fine dell’anno e l’inizio del 2015. Ma nel dataset mancano ancora i dati aggiornati dopo i raid e le incursioni egiziane a Derna e si prospetta un’ascesa dei numeri al passo con l’incremento degli attacchi.


Ma il conteggio delle morti violente non è certo l’unica misura della disperazione in Libia. Ci sono coloro che tentano la fuga via mare, scommettendo sulla propria vita. E altri costretti ad abbandonare casa e ridislocarsi all’interno dei confini nazionali. Come spiega l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, sono 400 mila gli sfollati ricollocati all’interno dei confini libici (in gergo tecnico, internally displaced people) – circa il 6-7 per cento della popolazione totale. Ai quali si sommano i 37 mila che in Libia erano venuti in qualità di rifugiati politici da altri paesi.

“Molte persone sono scappate per la quarta o la quinta volta, rendendo le stime molto difficili. Tuttavia, solo a Bengasi le autorità locali parlano di 90 mila persone costrette alla fuga”, riporta il portavoce dell’Unhcr William Spindler in una nota, “altre 83 mila hanno trovato rifugio in scuole e accampamenti di fortuna a ovest di Tripoli”.

Twitter @JacopoOttaviani