In Francia i musulmani costituiscono oltre la metà della popolazione carceraria. Dopo gli attentati terroristici di Parigi, si moltiplicano gli inviti a trovare nuovi criteri che impediscano alle carceri di diventare centri di reclutamento per gli islamisti

Ecco come si forma un jihadista francese

jihad
Dieci anni fa, per una rapina a mano armata un corpulento giovane poco più che ventenne finì nelle viscere della più grande prigione d’Europa. Fu rinchiuso in una cella che si trovava proprio sotto quella di un veterano jihadista. Il giovane era cresciuto in un disagiato quartiere periferico parigino, non lontano da quel carcere. Era uno dei tanti giovani musulmani disillusi che languono all’estrema periferia della capitale francese.

“Dietro le sbarre ho conosciuto molti delinquenti, rapinatori, trafficanti di droga” avrebbe raccontato anni dopo a un poliziotto francese il giovane, originario del Mali. In carcere conobbe anche alcuni terroristi, ma uno solo lo segnò in maniera duratura. Il jihadista di origini algerine, più vecchio di lui di 17 anni, occupava la cella sovrastante la sua. Avrebbe dovuto trovarsi in isolamento, ma i due riuscirono a trovare il modo per comunicare. Quell’uomo era stato in Afghanistan e gli disse di essere stato torturato dalle agenzie occidentali. “L’unico motivo per il quale rimasi in contatto con lui, una volta rilasciati entrambi, non è stato la religione” ha raccontato poi il giovane. “Restai in contatto con lui solo perché in quanto essere umano aveva lasciato in me un segno profondo”.

Il giovane di cui stiamo parlando era Amedy Coulibaly. Il 9 gennaio ha ucciso quattro ostaggi ebrei in un minimarket kosher di Parigi. È morto in una pioggia di proiettili non appena la polizia ha fatto irruzione nel locale. Il jihadista nella cella al piano di sopra era Djamel Beghal, condannato nel 2001 per aver complottato di far saltare in aria l’ambasciata statunitense a Parigi. Beghal è riuscito a proiettare la sua influenza anche su un altro carcerato il cui soggiorno obbligato nel grande carcere di Fleury-Mérogis alla periferia meridionale della capitale coincise con quello di Coulibaly: Chérif Jouachi che, in compagnia di suo fratello Said, ha massacrato la redazione di “Charlie Hebdo”, il settimanale satirico che ha pubblicato vignette del Profeta Maometto.

“Beghal fu un vero e proprio mentore per loro, uno studioso che li indottrinò parlando di religione e di jihad” dice Jean-Charles Brisard, ex consulente del procuratore capo dell’antiterrorismo francese, grande esperto di al-Qaeda, che al momento funge da consigliere di vari governi per l’antiterrorismo. “Il periodo trascorso insieme in carcere fu determinante”.

Tramite il suo avvocato, Beghal ha smentito qualsiasi coinvolgimento negli attentati di Parigi. In verità, tuttavia, nella lunga genesi degli attentati di Parigi il ruolo di una delle più famigerate carceri francesi – costruita per ospitare 2.855 detenuti quando in verità ne contiene oltre quattromila – ha moltiplicato le preoccupazioni sugli istituti penitenziari d’Europa, che fungono da centri di reclutamento per l’islamismo radicale.

Ora che i musulmani europei, arrestati mentre si imbarcano per andare a combattere in Siria o in Iraq o al loro rientro, ingrossano a dismisura le fila dei detenuti con propensioni alla jihad, la sfida di come contrastare la radicalizzazione dietro le sbarre diventa ancor più pressante.

Limitarsi a chiudere in carcere migliaia di combattenti di ritorno equivarrebbe a “invitarli alla radicalizzazione”, mette in guardia Gilles de Kerchove, massimo funzionario dell’antiterrorismo dell’Unione europea.

Massimo Cacciari
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All’indomani degli attentati di Parigi, il primo ministro francese Manuel Valls ha annunciato un rafforzamento significativo delle operazioni di raccolta delle intelligence, della sorveglianza e dei tentativi atti a contrastare il processo di radicalizzazione.

In Francia si sta quindi valutando l’opzione di isolare i carcerati islamisti dal resto dei detenuti per cercare di tutelare quelli più suggestionabili all’indottrinamento. Gli esperti in ogni caso restano divisi sulla portata reale della radicalizzazione nelle carceri e su cosa fare in proposito. Buona parte degli accertamenti è aneddotica e, quanto meno per il momento, le cifre sono relativamente esigue: nella maggior parte dei paesi occidentali si parla di poche centinaia di detenuti.

Cellule di terroristi in cella
“Isolare i detenuti islamisti è un problema” dice Louis Caprioli, ex capo dell’intelligence antiterrorismo francese. “Isolarli serve solo a far nascere una cellula di terroristi dentro al carcere, rimettere in libertà individui che si sono radicalizzati ancor più. Di sicuro potrebbe essere un rimedio per evitare l’indottrinamento, ma una volta rilasciati, li si deve tenere a ogni costo sotto stretta sorveglianza”.

Dopo essere stati rimessi in libertà, tutti e tre gli attentatori di Parigi sono stati tenuti sotto sorveglianza in diversi periodi. Ma la sorveglianza è un compito immane, tenuto conto delle risorse necessarie a monitorare centinaia di ex detenuti, probabilmente molti di più, a seconda di come le autorità definiscono il concetto di “radicale”.

L’alternativa – sperimentata dal Regno Unito e da altri governi – è cercare di evitare l’isolamento nelle carceri, nella speranza che amalgamandosi con tutti gli altri detenuti i terroristi e i cospiratori islamisti possano arrivare a sconfessare la violenza.

“Queste scuole di pensiero sono entrambe disastrose”, dice Haras Rafiq, ex consigliere del governo britannico per la lotta all’estremismo e ora direttore esecutivo della Quilliam Foundation, un think-tank impegnato verso il medesimo obbiettivo. Rafiq avverte che la necessità di sentirsi protetti può spingere i detenuti dritti dritti nelle braccia di sedicenti “emiri” a capo delle gang di detenuti.

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A titolo di esempio, Rafiq racconta la storia di un musulmano britannico condannato ad alcuni mesi di reclusione dopo una rissa. Era la prima volta che andava in carcere e non aveva mai pregato né osservato il digiuno. “Entrò in carcere molto angosciato. Iniziò ad approfondire la fede alla ricerca di risposte, per diventare una persona migliore. Entrò nella banda degli islamisti che iniziarono subito a indottrinarlo, a livello politico e razziale. ‘Fratello’, gli dissero, ‘tu sei innocente. In realtà il corrotto sistema giudiziario ti ha messo dentro per il solo fatto che sei musulmano. L’unico modo di farcela è entrare a far parte della nostra banda’. Gli dettero molti testi da leggere, non necessariamente islamisti, ma nei quali si affermava e ribadiva di continuo la contrapposizione tra ‘loro’ e ‘noi’.

Questo è il primo punto sul quale si gioca il reclutamento: individuare un ‘loro’ e un ‘noi’”. L’uomo uscì dal carcere da islamista. Ma, prosegue Rafiq, “non si rese conto di essere stato radicalizzato, di essere un estremista”. Poco alla volta quel giovane sarebbe tornato su posizioni più moderate. Altri, al suo posto, forse non lo farebbero.

Alyas Karmani, imam e attivista comunitario, nel 2011 ha raccontato durante un’inchiesta parlamentare britannica sulla radicalizzazione il caso di un detenuto in attesa di processo nel carcere di alta sicurezza di Belmarsh a Londra, confinato a tre celle di distanza da quella di Abdullah al-Faisal, un predicatore condannato nel 2003 per istigazione a uccidere ebrei, americani, hindu e cristiani. “Nel giro di tre giorni Abdullah al-Faisal lo convinse a portare a termine una missione da martire” si è appurato dall’inchiesta. Dopo essere stato rimesso in libertà, quell’uomo partì immediatamente per lo Yemen, dove solo gli studiosi locali riuscirono a dissuaderlo dal commettere un attentato e gli fecero cambiare idea.

Minoranza violenta
Gli esperti affermano che, proprio come tra i musulmani gli islamisti rappresentano una minoranza, così coloro che per perseguire i loro scopi si votano alla violenza rappresentano una minoranza tra gli islamisti. E soltanto una piccolissima parte di loro passa per le celle di un carcere. Un numero di gran lunga maggiore si estremizza sempre più spesso online. In ogni caso, Brisard dice che chi abbraccia l’estremismo dietro le sbarre tende ad avere un “profilo più pericoloso” di coloro che l’abbracciano da uomini liberi.

Mohammed Merah e Mehdi Nemmouche, che hanno assassinato ebrei rispettivamente nel 2012 a Tolosa e l’anno scorso a Bruxelles, sono entrambi passati per le carceri francesi dopo una condanna per rapina. Richard Reid, che nel 2001 cercò di far esplodere dell’esplosivo nascosto all’interno delle sue scarpe su un volo diretto a Miami, si era convertito all’Islam mentre scontava una condanna per furto in una prigione britannica.

Almeno cinque delle 134 persone condannate per reati collegati al terrorismo di matrice islamica nel Regno Unito tra il 1999 e il 2010 avevano scontato una condanna in carcere: così risulta dalle ricerche effettuate dal think-tank londinese Henry Jackson Society. Tra di loro c’erano Muktar Said Ibrahim, facente parte di una cellula responsabile di tentati atti terroristici due settimane dopo gli attentati a Londra del 7 luglio 2005. Un progetto di legge antiterrorismo in esame nel Regno Unito, che si ispira a un’esistente strategia di “de-radicalizzazione”, prevede varie misure per tenere sotto controllo i detenuti a rischio di indottrinamento.

Gli esperti dicono che le condizioni nelle quali versano le carceri in Francia agevolano il clima per l’indottrinamento. Le tradizioni laiche locali vietano di raccogliere informazioni sull’indottrinamento religioso dei detenuti, ma gli esperti pensano che almeno la metà di coloro che occupano una cella in Francia sia musulmana. Nelle aree urbane la loro percentuale sarebbe ancora maggiore. Questo dato è di almeno cinque volte superiore alla percentuale musulmana della popolazione in genere. Il sistema penitenziario francese registra inoltre un numero di suicidi di detenuti molto più alto di qualsiasi altro paese europeo, secondo i dati del Consiglio d’Europa.

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Tra i musulmani francesi abituati, secondo l’espressione del professore Farhad Khosrokhavar, a essere considerati dai loro connazionali alla stregua di “parassiti”, la strada per l’islamismo violento non inizia con l’Islam, ma con l’odio. “La gente pensa che accada il contrario” dice Khosrokhavar, sociologo presso la Scuola per studi avanzati in scienze sociali a Parigi, che ha trascorso vent’anni ad analizzare l’Islam in Francia. “Ad arrivare per prima, invece, è la radicalizzazione. Il passo successivo è pensare: ‘Sono disprezzato. Li odio’”.

Nel corso di centinaia di interviste fatte per un suo libro di prossima uscita, Khosrokhavar ha scoperto che i giovani musulmani francesi delle aree più disagiate che abbracciano il concetto di jihad, o guerra santa, lo fanno prima ancora di aver afferrato i principi basilari dell’Islam. “Il jihad è l’unico strumento di cui dispongono per dare un significato sacro al loro odio per la società. Una volta che sono entrati nella mentalità del jihad, studiano l’Islam, e per lo più lo fanno in prigione”.

Quando nel 2005 entrò nel carcere di Fleury-Mérogis, Chérif Kouachi aveva già sposato il jihadismo (anche se disse agli inquirenti di aver avuto qualche perplessità in merito alla missione – poi sventata dal suo arresto – che avrebbe dovuto compiere combattendo i soldati americani in Iraq). Coulibaly, invece, era stato dentro per la prima volta a 17 anni, e ha continuato a entrare e uscire di prigione per scontare varie condanne per furto, violenza, rapina a mano armata e traffico di droga. Il ministro della giustizia francese ha dichiarato che Coulibaly, Chérif Kouachi e Djamel Beghal non possono aver scontato condanne insieme in carcere perché le date non coincidono e perché Beghal era in isolamento. Dai registri degli interrogatori di Coulibaly, invece, visti dal “Financial Times”, risultano dettagliati resoconti di suoi incontri con Beghal, e dalla deposizione di un poliziotto si evince la descrizione che Beghal diede di Kouachi in carcere. Seppur per breve tempo, quindi, Coulibaly ebbe il tempo sufficiente ad allacciare un rapporto con Beghal.

Il ritorno dalla Siria e dall’Iraq
Dopo la sua scarcerazione, avvenuta nel 2007, Coulibaly ha fatto frequenti visite alla regione collinare del Cantal, nel sud della Francia, dove Beghal aveva preso la residenza agli arresti domiciliari dopo essere stato scarcerato a sua volta. I registri dei poliziotti che lo sorvegliavano documentano un corso specialistico in indottrinamento religioso tenuto da un uomo che, durante un suo soggiorno nel Regno Unito, era stato un seguace di Abu Hamza, il religioso radicale della moschea di Finsbury Park, e Abu Qatada. Da una prima diagnosi psicologica di Coulibaly risultano “caratteristiche di una personalità immatura e psicopatica”, e in conclusione si legge che ogni suo gesto era come dettato dalla “volontà di conquistare potere”. Nelle mani di Beghal, Coulibaly divenne come la creta.

“Djamal Beghal è un uomo che seduce” dice Caprioli, durante il turno di guardia del quale fu catturato Beghal. “Ha carisma. Rispetto a questi ragazzi è su ben altro piano, dal punto di vista mentale”.

Nel 2010 Beghal, Coulibaly e Chérif Kouachi sono stati arrestati in relazione a un complotto mirante a liberare un terrorista condannato e rinchiuso in un carcere francese. Mentre Kouachi è stato rilasciato per mancanza di prove, Beghal e Coulibaly sono stati arrestati. Coulibaly è uscito di prigione all’inizio dell’anno scorso. Beghal è ancora adesso dietro le sbarre.

Le autorità europee ancora una volta stanno cercando di fermare quella sorta di vaso comunicante che dalla prigione porta al jihadismo. Un’opzione allo studio è quella offerta dai programmi di “de-radicalizzazione” attivi a Singapore, Arabia Saudita e altrove. Valls dice che raddoppierà il budget per gli imam che lavorano in prigione e ai 182 religiosi islamici che attualmente fanno visita ai detenuti ne aggiungerà altri 60.

Il loro numero resta in ogni caso assai esiguo se lo si mette a confronto con i presunti 35mila musulmani detenuti nelle carceri francesi. Oltre a ciò, gli esperti dell’antiterrorismo avvertono che gli estremisti che scontano condanne al carcere hanno reagito all’inasprimento dei controlli passando da forme di proselitismo esplicito a forme più clandestine di indottrinamento.

Ora che da Siria e Iraq fa ritorno una nuova generazione di jihadisti – molti dei quali hanno origini più agiate rispetto agli emuli di Coulibaly o dei fratelli Kouachi, e non sono mai stati in carcere – si moltiplicano i timori che condanne detentive più severe possano trasformare in islamisti convinti coloro che tornano indietro traumatizzati o delusi.

De Kerchove dice che coloro che “hanno le mani sporche di sangue” dovranno affrontare la giustizia penale, ma sollecita la creazione di programmi di riabilitazione e mette in guardia dai pericoli legati a una carcerazione indiscriminata di tutti coloro che ritornano dall’aver combattuto il jihad.

“La gente ha paura, dice di volerli vedere rinchiusi in carcere tutti quanti” dice De Kerchove. “Ma questo non è l’approccio giusto”.

Traduzione di Anna Bissanti
Copyright The Financial Times Limited 2015

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