Gli appetiti egiziani. Gli interessi francesi. La lotta tra islamici per la supremazia. E l’Italia che non sa perché dovrebbe intervenire
Tornare in Libia, stavolta contro lo Stato Islamico? L’opzione è sul tavolo. A più di cent’anni dal primo sbarco a Tripoli della “grande proletaria”, per un’operazione coloniale contro il morente impero ottomano nelle sue province libiche, e ad appena quattro anni dalla poco sentita compartecipazione alla missione anti-Gheddafi sponsorizzata da Parigi e da Londra, l’Italia deve decidere se e come riaffacciarsi sulla quarta sponda.
Una scelta difficile, sull’onda della paura e delle emozioni suscitate nella nostra opinione pubblica dall’emergere dello Stato Islamico sulla scena internazionale e di recente in ciò che resta della Libia. Sicché stavolta l’invasione, nel quadro di una “missione di pace” (leggi: guerra) promossa da Egitto e Francia con il timbro del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, e con l’eventuale partecipazione di alcuni Paesi arabi, africani ed europei, si vestirebbe da capitolo bellico della “lotta al terrorismo”.
Nell’attesa che le diplomazie internazionali dipanino - o meno - la complessa matassa dei passaggi al Palazzo di Vetro, uno sguardo al terreno libico e alle forze che vi agiscono direttamente o indirettamente può rivelarsi utile. Anzitutto: lo spazio che nei nostri atlanti e nelle carte ufficiali continuiamo a rappresentare come Libia non esiste più. Il fenomeno della dissoluzione istituzionale, per la verità, è diffuso in tutta la regione, e non solo. Le frontiere ereditate dall’esperienza coloniale, un tempo trattate come intangibili dall’Unione Africana, stanno mutando rapidamente, più spesso scomparendo.
Non più barriere né ponti, solo tracce pro forma, con qualche residua “dogana” ufficiale che si somma alle decine di check points gestiti da formazioni informali e dalle tribù o etnie di riferimento. Ciò che conta, tra Sahara e Sahel, sono infatti i corridoi dei traffici - droga, esseri umani, armi e quant’altro - e l’accesso alle risorse minerarie, vegliato di norma da mercenari al servizio delle aziende che vi attingono.
Nell’immenso spazio libico - sei volte l’Italia, per un decimo della nostra popolazione, in massima parte concentrata lungo la facciata mediterranea - le vestigia dello Stato autoritario sono scomparse con il suo padre padrone, il colonnello Gheddafi. Non v’è più traccia del monopolio della violenza, più o meno garantito dal dittatore fino al 2011, per quarantadue lunghi anni, grazie alla sua sperimentata abilità nel giocare di sponda fra le tribù e i poteri informali radicati nelle tre macroregioni: Cirenaica, Tripolitania e Fezzan.
Nelle sabbie, fra i rilievi, nei quartieri urbani o lungo la litoranea si affrontano decine di milizie, armate anche grazie alla disponibilità del ricco arsenale gheddafiano, finito fuori controllo dopo l’uccisione del colonnello. Si usa oggi ricondurle a due schieramenti principali, imperniati su Tobruk e su Misurata, oltre a una quantità di formazioni che agiscono nella “Libia profonda”, in pieno deserto. A Tobruk vegeta un governo che si vorrebbe “libico”. Il quale poggia su un parlamento eletto da una minima parte degli aventi diritto, ma gode del riconoscimento della “comunità internazionale” - le maggiori potenze mondiali e regionali. L’esecutivo locale, che si pretende nazionale, è guidato dal pallido premier al-Thinni, insediato a Beida.
Qui in Cirenaica, a ridosso del poroso confine con l’Egitto - o meglio con il suo deserto occidentale, da sempre segnato dalle scorrerie dei beduini più che dal controllo del Cairo - si concentrano le milizie afferenti all’”uomo forte” che vorrebbe prendere il controllo di tutta la regione, se non dell’intero spazio (già) libico: il generale Khalifa Heftar. Il quale si è intestato la “guerra al terrorismo” - battezzata Operazione Dignità - con il decisivo appoggio dei paesi del Golfo e dell’Egitto.
Fra i suoi principali alleati, all’Ovest, le milizie di Zintan e del retroterra berbero. Molti degli orfani di Gheddafi fanno riferimento a Tobruk, che tiene peraltro a presentarsi all’Occidente come rifugio dei “laici” e di tutti i sinceri avversari dell’islamismo radicale. In quest’area operano anche le milizie “federaliste” delle Forze di Difesa della Cirenaica, che rivendicano l’autonomia/indipendenza da Tripoli e usano il blocco dei porti e dei terminali energetici come arma di ricatto.
A Tripoli è rimasto un altro spezzone di poteri locali e regionali, il Congresso nazionale libico, anch’esso reclamante il proprio buon diritto a rappresentare la Libia. Il capo di queste forze, pro forma, è Omar al-Hassi. In punto di fatto, questo schieramento è incardinato sulle truppe della città mercantile di Misurata. Al comando dei leader di questo porto strategico si attribuiscono circa quarantamila uomini. È la sedicente “Alba Libica”, variegato fronte in cui si segnala un tono islamista, in parte legato ai Fratelli Musulmani, ma alleato anche con formazioni jihadiste che si giurano aderenti ad Ansar al-Sharia. Accanto a queste forze, unità militari come la Brigata dei martiri del 17 febbraio, accanto a gruppi armati di varia tendenza, interessati anzitutto - come d’altronde tutti i loro rivali - al controllo delle risorse energetiche, dell’acqua, dei porti e dei traffici.
Alla guerra (in)civile libica si sono iscritte negli ultimi mesi alcune milizie che si proclamano fedeli al “califfo” Abu Bakr al-Baghdadi. Non si è trattato però di un’espansione a macchia d’olio dello Stato Islamico, dalla Mesopotamia al deserto libico. Alcuni gruppi jihadisti, storicamente incardinati nella cittadina cirenaica di Derna, si sono impadroniti del marchio “Stato Islamico”, di notevole richiamo nella galassia dell’islamismo radicale e non solo. Per ora non siamo di fronte a gruppi armati particolarmente rilevanti. In buona misura, i militanti che oggi alzano il vessillo “califfale” sono schegge di Ansar al-Sharia, operanti soprattutto in Cirenaica ma che di recente sono state capaci di colpire anche a Tripoli e stanno espandendo la loro area di influenza anche allo strategico porto di Sirte, oltre che a Bengasi.
Obiettivo principale loro e di tutti gli altri protagonisti della guerra, il controllo dei traffici e delle risorse energetiche - la cui produzione, in questo caos, si è peraltro ridotta a poche centinaia di migliaia di barili al giorno e tende ulteriormente a calare.
Più rilevante il contesto regionale e internazionale. Lo schieramento interventista è infatti guidato da Egitto e Francia, due Paesi con precise mire geopolitiche. Al Cairo si sogna di prendere finalmente il controllo dei giacimenti di idrocarburi e dei terminali petroliferi della Cirenaica, a titolo di compensazione della sfortunata geologia che riduce la terra del Nilo a entità minore in un contesto di ricchi produttori arabi, a est (sauditi), come a ovest (libici e algerini). Parigi è dai tempi coloniali interessata soprattutto al Fezzan, cerniera verso la fascia sahariana e saheliana su cui resta incardinata la sua sfera d’interesse africana, estesa verso sud e verso ovest, fondamentale per l’aspetto energetico (si pensi all’uranio nigerino) e per coltivare il rango di potenza mondiale, sia pure in scala ridotta, cui i francesi non intendono abdicare.
Nelle retrovie del fronte interventista troviamo le monarchie del Golfo, a cominciare dall’Arabia Saudita, con gli Emirati Arabi Uniti buoni secondi. Sono i grandi sponsor del golpe militare con cui il generale al-Sisi ha liquidato il governo dei Fratelli musulmani in Egitto, appoggiati dal Qatar. Una lotta fratricida nel campo arabo-sunnita, con i wahhabiti di Riyad decisi a stroncare ogni esperimento di islam politico, quale quello tentato, molto malamente, da Morsi e associati nell’Egitto post-“rivoluzionario”. Per le monarchie del Golfo, la “guerra al terrorismo” è essenzialmente votata a riaffermare la propria egemonia regionale a scapito della Fratellanza e dei suoi sostenitori, ma soprattutto dell’Iran sciita, arabofobo e decisamente troppo “democratico” per i gusti di quegli assolutismi a sfondo religioso.
Se l’Italia intervenisse in tale ginepraio, con l’intenzione di colpire lo Stato Islamico, si troverebbe quindi associata al raggruppamento a guida egiziano-saudita, con francesi e altri europei. E la benevola assistenza americana (ma no boots on the ground). Resta da chiarire il nostro interesse a partecipare di tale compagnia. Con mezzi militari e finanziari non all’altezza di una missione di combattimento di durata probabilmente non breve e certamente assai sanguinosa. Ma non sarebbe la prima volta che ci gettiamo nella mischia senza aver ben capito perché. O senza avere il coraggio di volercelo dire.