Nel febbraio 2011 il paese africano, sul'onda della primavera araba, si liberava del dittatore. Ma l'esaltazione di quei giorni è ormai un ricordo. E ora l'occidente deve prepararsi a reagire
Febbraio 2015, è il quarto anniversario della rivolta libica contro il dittatore
Gheddafi. Ma la rabbia e l'esaltazione di quei giorni sembrano sentimenti del passato. Adesso che la dittatura ha lasciato il posto non solo e non tanto al caos (come in molti prevedevano) ma al gruppo terroristico più pericoloso di questi anni, la speranza e la mediazione politica stanno lasciando il posto alle recriminazioni.
L'
Isis conquista la città natale di Gheddafi e avverte l'Italia in un ulteriore video sanguinolento di trovarsi a pochi chilometri dalla sua capitale. I giornali, anziché offrire soluzioni, cominciano a cercare le colpe. Le colpe della situazione drammatica in cui stiamo entrando nostro malgrado. «Aveva ragione
Silvio Berlusconi a non unirsi a Nicholas Sarkozy nel bombardamento delle forze lealiste in Libia». «Abbiamo rotto il patto d'Amicizia con Gheddafi cercato a suo tempo da Romano Prodi e finalizzato da Berlusconi». «Il presidente Napolitano ha spinto per la nostra partecipazione al conflitto, dunque porta la responsabilità dell'avvicinamento dell'Isis». «La nsotra politica estera è sbagliata».
Forse. Ma ricordo i giorni orribili passati a Benghasi a fine febbraio 2011 nel terrore dell'avanzata delle forze lealiste del dittatore. Le migliaia di cittadini, donne senza velo in testa insieme a giovani ventenni desiderosi di un futuro senza dipendenza dai sussidi statali, di una vita propria che andasse al di là del silenzio impaurito o della compiacenza al sovrano assoluto. Esuli precipitatisi da Stati Uniti e Irlanda per dare il proprio contributo. Il municipio sul mare preso d'assalto dai ribelli, centro nevralgico delle operazioni di resistenza, svuotato in poche ore, le porte che sbattevano al vento alla notizia che i soldati di Gheddafi erano arrivati ad Ajdabia, pochi chilometri a sud della capitale della Cirenaica. E poi le notti passate a dormire sotto le jeep al fronte, nel deserto, a parlare del futuro con giovani poco più che ventenni che il giorno dopo magari si sarebbero sparati sui piedi, incapaci come erano a maneggiare qualsiasi tipo di arma. Non avevano conosciuto mai altro sistema politico che non fosse la parola di Gheddafi o quella di Allah. La scelta per loro era tra le due. Vissuti nell'ignoranza per due decadi, non erano capaci di capire altro. Adesso hanno anche il verbo del Kalashnikov.
Quattro anni fa non esisteva l'
Isis. Al Qaida era una presenza nella città settentrionale di Derna, certo, ma detestata anche dai più devoti. Nel 2011 la battaglia non era islamisti contro laici, era piuttosto una serie di città stato contro un potere centrale che non lasciava posto a nessuna visione alternativa della vita che non fosse quella del leader supremo. Affermare ora che la minaccia della Valanga Nera sulle sponde del Mare Nostrum sia colpa dell'intervento armato occidentale contro Gheddafi vuol dire sottovalutare la capacità emulative del terrorismo islamico e la responsabilità dei paesi arabi che lo finanziano. Soprattutto, vuol dire dimenticarsi che un regime dittatoriale, qualsiasi regime dittatoriale, non è mai per sempre. L'Occidente per decenni si è servito di comodi dittatori lungo i suoi confini per neutralizzare il pericolo estremismo. Siria. Egitto. Libia. Algeria. Tunisia. Ma quando la violenza bruta non basta più e un regime implode resta solo il caos perché chi è stato a lungo represso reagisce e lo fa dopo decenni di diseducazione, violenza e ignoranza. Quella strategia ha fatto il suo corso. Non serve un altro Gheddafi così come il ditatore al-Sisi ovviamente non è oggi la soluzione né per l'Egitto né per l'Occidente. Occorre sconfiggere gli estremismi e creare ponti. Non muri.
Questo non è il momento di andare a cercare le
colpe. È invece il momento di una reazione seria e organizzata a capo della quale l'Italia dovrebbe porsi senza indugio soprattutto in virtù dei suoi lunghi rapporti con la Libia che vanno dalla colonizzazione all'amicizia. È il momento di capire che gli attentati di Parigi non erano un episodio sporadico ma una battaglia nel corso di una guerra che continuiamo a non voler vedere. Soprattutto occorre rendersi conto, come ha spiegato Romano Prodi, che se alla fine la diplomazia non ce la farà e l'Isis sarà più forte dell'odio che separa le tribù libiche in guerra da quattro anni, allora l'intervento – sotto l'egida delle Nazioni Unite - deve essere di grande portata. Altrimenti sarà come ferire un toro senza ucciderlo. Lo renderà soltanto più feroce. L'Italia non può più permettersi di stare in seconda fila, aspettando di fiutare in che direzione tira il vento. Il mio amico Ahmed stamattina mi ha scritto da Benghasi chiedendomi se avevo visto il video degli egiziani copti ortodossi. «Mi spiace tanto», mi ha detto. Poi ha aggiunto: «Hai visto che dicono dell'Italia?» Infine: «Ti ricordi di tre anni fa? Non mi avevi detto che l'Occidente avrebbe aiutato la Libia a diventare prospera? Guarda invece come stiamo messi…».