Julian Assange, l'intervista esclusiva
'Perseguitati perché abbiamo toccato i potenti'
A 5 anni dalle prime rivelazioni sull'Iraq, il nostro colloquio con il fondatore di WikiLeaks, oggi confinato nell'ambasciata dell'Ecuador a Londra. "In Occidente ci sono molti modi di mettere a tacere i giornalisti senza eliminarli"
di Stefania Maurizi
25 marzo 2015
Julian Assange nell'ambasciata dell'Ecuador in una foto del 2012In un piccolo appartamento nel cuore di Londra - quanto di più lontano dai fasti delle ambasciate nelle grandi capitali europee - un uomo è confinato in una stanza di venti metri quadri da quasi tre anni, dopo averne passato uno e mezzo agli arresti domiciliari con un braccialetto elettronico alla caviglia. Fuori, una squadra di agenti di Scotland Yard, che schierano almeno due grandi furgoni, e sette giorni su sette, ventiquattro ore al giorno, circondano l’edificio, pronti ad arrestarlo se solo prova a mettere un piede fuori.
È in questa ambasciata dell’Ecuador a Londra che “l’Espresso” incontra di nuovo in esclusiva Julian Assange, a cinque anni esatti dalla prima volta in cui fece tremare la più grande potenza del mondo, gli Stati Uniti, pubblicando un video segreto dal titolo “Collateral Murder”, in cui si vedeva un elicottero Apache sparare su civili inermi in Iraq.
A partire da quell’aprile 2010, nulla è stato più come prima nella vita di Assange e della sua organizzazione, WikiLeaks. E anche nella vita della sua fonte: la giovane soldatessa americana Chelsea Manning (allora Bradley), immediatamente arrestata, trattata in modo inumano per nove mesi e poi condannata a 35 anni per avere rivelato il vero volto delle guerre in Afghanistan e in Iraq, le atrocità di Guantanamo e i segreti della diplomazia Usa.
Poche settimane dopo l’arresto di Manning, invece, Assange è finito in carcere su ordine della Svezia per uno scandalo sessuale (è accusato di stupro) ad oggi non ancora chiarito. L’indagine svedese è ancora alla fase preliminare e il magistrato si è sempre rifiutato di andarlo a interrogare nella capitale inglese, dove l’aveva fatto arrestare, lasciandolo in un limbo legale, tanto che, nel giugno del 2012, Assange ha chiesto asilo all’Ecuador, rifugiandosi nell’ambasciata, per paura che, se mandato in Svezia, possa poi essere estradato negli Usa e condannato per la pubblicazione dei documenti segreti.
Quando arriviamo all’ambasciata nel tardo pomeriggio, i poliziotti di Scotland Yard sorridono. Sono abituati ai giornalisti e si mostrano friendly, ma non per questo la sorveglianza è meno impressionante: Scotland Yard ha già speso oltre dieci milioni di sterline per guardare a vista Assange.
All’interno della sede diplomatica, le regole di sicurezza sono rigide, ma il clima è familiare. Pochi addetti e poche stanze: la cucina e uno dei bagni di dimensioni lillipuziane, gli uffici dell’ambasciatore e dello staff. Poi la stanza dove vive e lavora Julian, tra spazi ristretti, computer, libri, faldoni di documenti, lettere, oggetti, cd e corrispondenza da ogni angolo del mondo. La carenza di luce naturale e di aria fresca rendono tutto più opprimente. Assange ha un incarnato pallido e la barba lunga. Ma è ancora determinato come quando, nel 2010, al settimanale tedesco “Der Spiegel” che gli chiedeva perché invece di usare il suo talento con i computer per fare soldi, si era imbarcato in un’impresa come WikiLeaks, rispose: «Mi piace aiutare le persone vulnerabili, mi piace fare a pezzi i bastardi».
Assange, WikiLeaks ha esposto i crimini e gli abusi della più potente organizzazione del mondo: il complesso militare-industriale americano. E questo complesso ha reagito al colpo, con una massiccia indagine contro lei e il suo staff. Cosa sappiamo di questa inchiesta? «Il Dipartimento americano della Giustizia ha confermato che l’indagine va avanti. Abbiamo finalmente avuto copia dei mandati di sequestro delle comunicazioni di alcuni nostri giornalisti scambiate attraverso la Rete e in possesso di Google. Quest’anno è inoltre emersa la natura dei crimini che il Dipartimento della Giustizia vorrebbe contestarci: spionaggio, associazione a delinquere ai fini dello spionaggio, accesso non autorizzato ai computer, furto di dati di proprietà del governo. Ecco a che punto siamo con l’indagine. È una cosa assurda. Una vergogna. L’inchiesta degli Stati Uniti contro WikiLeaks è ritenuta la più grande mai condotta contro un’organizzazione giornalistica: nelle comunicazioni interne, il governo Usa parla di “un’indagine che coinvolge tutte le agenzie del governo” e i diplomatici australiani (Paese di cui Julian è cittadino, ndr.) hanno dichiarato che si tratta di un’inchiesta “di natura e ampiezza senza precedenti”».
Quello che colpisce è la differenza tra i casi di WikiLeaks, Manning e Edward Snowden e il caso del generale David Petraeus, l’ex capo della Cia che ha ammesso di aver rivelato informazioni top secret alla sua amante. Lei, Manning e Snowden ridotti a vivere da prigionieri, mentre il generale Petraeus è libero. «Ormai non si fa più manco finta che tutti gli individui siano uguali davanti alla legge. Dianne Feinstein, la senatrice americana che guida la commissione sull’intelligence, dichiara continuamente che io dovrei essere perseguito per spionaggio e fa pressione affinché questo accada, mentre nel caso del generale ha detto che Petraeus ha sofferto abbastanza, perché ha perso il lavoro. È davvero un impressionante esempio del sistema due pesi e due misure. Un sistema che dimostra che loro non devono rispondere a nessuno di quello che fanno. È una strategia che è parte del loro calcolo: avere potere per proiettare all’esterno l’immagine di potere. E uno dei modi per proiettare all’esterno il potere è dimostrare di non dover rispondere a nessuno: siamo intoccabili, quindi non azzardate a toccarci. Questa è una delle ragioni per cui hanno perseguitato in modo duro WikiLeaks, Snowden e Manning, perché noi li abbiamo “toccati” in modo pesante, facendoli apparire veramente deboli». Edward Snowden WikiLeaks è stata anche colpita da un devastante blocco stragiudiziale delle carte di credito. Sia il blocco sia l’inchiesta giudiziaria infinita sono due dei metodi usati contro le organizzazioni che minacciano gli interessi dei potenti. È terribile, ma, citando Chelsea Manning, «è sempre meglio che sparire nel cuore della notte», ed essere uccisi come succede in molti regimi autoritari. Non è d’accordo? «Ero solito dire che, per come funzionano oggi le cose nel mondo occidentale, i giornalisti non spariscono dalle case nel cuore della notte, ma le case vengono portate via ai giornalisti nel cuore del giorno, attraverso l’editore che li licenzia o le pressioni legali. Negli Stati Uniti e nell’Occidente in generale ci sono molti modi di mettere a tacere i giornalisti senza eliminarli, molti modi di diluire, che non vuol dire censurare, ma diluire seriamente l’impatto delle loro rivelazioni. La struttura delle relazioni tra le organizzazioni e gli individui che hanno potere è tale che è molto difficile creare problemi a quella gente pubblicando qualcosa».
In una famosa intervista, lei ha dichiarato che all’inizio, quando ha creato WikiLeaks, pensava che il vostro ruolo più importante sarebbe stato in Cina, in alcune ex Repubbliche sovietiche e in Nord Africa. Perché i cittadini di questi Paesi non inviano documenti segreti a WikiLeaks? «Personalmente, sono stato consapevole fin dall’inizio che il nostro conflitto più grosso sarebbe stato con gli Stati Uniti. Ne ero cosciente perché il settore militare degli Usa da solo costituisce il 50 per cento del settore militare del mondo, è quello più avanzato, quindi produce più segreti di tutti, ed è anche caratterizzato da un’incoerenza ideologica perché professa di credere in certi valori, ma poi agisce contro quegli stessi valori, e questa cosa crea all’interno dei dissidenti come Manning e Snowden. Noi di WikiLeaks abbiamo fatto lavori importanti sulla Cina, l’Africa e molti altri Paesi, ma in ultima analisi, purtroppo, siamo limitati nelle risorse che abbiamo. Per poter interagire con una certa cultura serve una fetta significativa dello staff dell’organizzazione che parli la lingua di quella cultura, e serve essere coinvolti nel dibattito nazionale di quella cultura. Di tanto in tanto, riusciamo a concentrare le risorse su un certo Paese: per esempio, a Timor Est siamo stati in grado di rivelare un certo numero di corruzioni e tentativi di assassinio, tanto che siamo stati percepiti come protagonisti del dibattito nazionale. Ma per riuscire ad essere percepiti in modo continuo come protagonisti del dibattito politico in grandi culture come la Cina o la Russia, servono grandi investimenti nelle lingue di quei Paesi». Poliziotti inglesi controllano l'ambasciata dell'Ecuador Pubblichereste i segreti cinesi e russi con la stessa coraggiosa determinazione? «Sì. Abbiamo pubblicato importanti documenti sulla Cina in cinese. Si tratta di materiale piuttosto importante e che è stato efficace nell’evitare che una certa tecnologia per le intercettazioni venisse impiantata su ogni computer cinese su ordine dello Stato».
Nelle ultime settimane c’è stata un’importante novità riguardante il caso svedese contro di lei: il procuratore di Stoccolma ha accettato di interrogarla in questa ambasciata dove si rifugia, come lei ha sempre richiesto, invece di estradarla in Svezia. Se il caso svedese si chiudesse, lei si sentirebbe rassicurato e lascerebbe l’ambasciata per volare in Ecuador e godere del diritto di asilo? «Purtroppo, la ragione per cui ho chiesto asilo rifugiandomi qui non è mai stata “l’indagine preliminare” svedese, ma l’indagine americana. E Scotland Yard ha dichiarato pubblicamente che mi arresterebbero comunque».
Perché? «Non è chiaro. Si sono anche rifiutati di confermare se gli Usa abbiano o meno emesso un mandato di estradizione contro di me. Questo è sospetto».
Par di capire che se si risolvesse il caso svedese lei resterebbe comunque qui... «Non farà alcuna differenza, se non a livello politico, ma la differenza politica è molto importante. Per chiunque l’abbia esaminata in profondità, l’inchiesta preliminare svedese è uno scandalo giudiziario. È stata usata per spostare l’attenzione dal caso che è iniziato prima e che ha le implicazioni più serie: l’inchiesta americana per spionaggio».
Lei ha descritto la sua vita dentro l’ambasciata come quella dentro una stazione spaziale. Può descrivere un giorno tipico ammesso che ne esista uno? «Spero di non avere un giorno tipico. Come tutte le persone che stanno sotto una qualche forma di detenzione, la monotonia è il nemico e la deprivazione sensoriale è un grave problema. Fortunatamente, andiamo avanti con le pubblicazioni e siamo un’organizzazione giornalistica combattiva e multinazionale. Almeno a livello intellettuale, riesco a vivere non solo dentro queste quattro mura, ma anche in tanti diversi Paesi allo stesso tempo».
Cosa le manca di più? «La gente cerca di farmi dire che mi manca ogni sorta di cosa, ma io dico solo che mi manca la mia famiglia e niente altro, perché l’esigenza di lottare per gestire le nostre attività richiede un’intensa concentrazione, così è difficile trovare il tempo di pensare ai miei problemi. Questa è una cosa positiva».
Assange, lei ha sempre rifiutato di parlare della famiglia e dei figli per ragioni di sicurezza. Le hanno mai chiesto di riconsiderare il suo lavoro? «Sì, ma lo hanno accettato. In realtà non hanno scelta (sorride con fare autoironico, ndr.). È stato molto duro per alcune persone a me vicine, inclusi i miei figli: loro non hanno scelto questa vita. D’altra parte, però, situazioni come queste sono parte di me e di chi sono. E credo di stare facendo cose di cui i miei figli, in ultima analisi, saranno orgogliosi e da cui potranno imparare in modo sano».