Partita apertissima alle elezioni britanniche di domani. Cameron e Miliband non sfondano, decisive le terze forze, soprattutto il partito scozzese. E il vincitore, alla fine, potrebbe essere costretto a un governo da Prima Repubblica

Pazzo Regno Unito. Quelle del 7 maggio vengono infatti considerate, come dice il “Guardian”, «le più complesse e imprevedibili elezioni che si ricordino». Inghilterra, Scozia, Galles e Irlanda del Nord vanno al voto, e non si sa proprio chi ne uscirà vincitore.
 
[[ge:rep-locali:espresso:285152401]]I sondaggi danno più o meno alla pari, intorno al 33 per cento, i due grandi partiti, il Labour di Ed Miliband e i Tories del primo ministro David Cameron. Aspettative che, se confermate, sarebbero deludenti per entrambi i leader. Il premier, dopo 5 anni di governo, vedrebbe scendere di tre punti il suo partito. Miliband crescerebbe sì di quattro punti, ma, anche in caso di vittoria, non abbastanza per formare un governo con un'alleanza stabile, e quindi sarebbe una mezza sconfitta per lui, leader che ha riportato più a sinistra il Labour dopo gli anni di Tony Blair, ma che in carisma è ben lontano sia dall'ingombrante e vincente predecessore, primo ministro per dieci anni, sia dal fratello David Miliband, il riformista che Ed ha sconfitto nel 2010 e che si è rifugiato a New York.
 
Che Cameron e Miliband siano tutt'altro che inattaccabili lo confermano le ultime polemiche della vigilia. Il sindaco di Londra, il conservatore Boris Johnson, invita maliziosamente gli elettori blairiani a votare per Cameron. Ma il premier deve fronteggiare un duro attacco del suo predecessore e compagno di partito John Major, che ad una recente cena politica, come ha rivelato il “Daily Mirror”, ha criticato l'incapacità dei Tories di parlare alle minoranze e ai neri e di abbattere le disuguaglianze. Due polemiche che danno la misura delle presunte debolezze dei due candidati: un Miliband troppo di sinistra, e un Cameron troppo di destra.
 
I grandi protagonisti di queste elezioni sono dunque le terze forze. Lo storico bipartitismo britannico, frutto di un sistema elettorale uninominale maggioritario, era già stato messo in crisi la volta scorsa, quando i liberaldemocratici di Nick Clegg, politicamente più o a destra o più a sinistra a seconda del momento, ottennero ben il 23 per cento dei voti, contro il 29 dei laburisti e il 36,1 dei conservatori, e alla fine di un lungo negoziato formarono una coalizione con questi ultimi.

L'esperienza di governo con una destra ritenuta elitaria e antieuropea non ha portato però fortuna ai libdem, che oggi nei sondaggi viaggiano intorno al 9 per cento, che sarebbe il loro peggiore risultato negli ultimi 45 anni. Potrebbero ancora risultare decisivi, a seconda del numero dei seggi che il sistema elettorale gli farà vincere (Nel 2010 ne portarono a casa comunque solo 57, contro i 258 dei laburisti, che eppure avevano incassato appena il 6 per cento in più). Però ormai sono visti sempre più come un partito dell'establishment, non più come uno di protesta. E così si va frantumando quello che l'“Economist” ha chiamato il «sistema a due partiti e mezzo».

Perché, se si parla di protesta, allora il panorama si è nel frattempo davvero rivoluzionato. A sinistra i Verdi di Natalie Bennett, con il loro potenziale 5 per cento, potrebbero impedire ai laburisti di vincere in diversi collegi, ma lo stesso potrebbe fare, e ancora di più, a destra, l'Ukip di Nigel Farage. Il Partito per l'indipendenza del Regno Unito, anti-immigrazione e anti-Ue, noto in Italia per l'alleanza con il M5S al Parlamento europeo, darà del filo da torcere a Cameron in Inghilterra. Potrebbe passare infatti dal 3 al 13 per cento, anche se per via del sistema elettorale dovrebbe incassare pochissimi seggi, meno di cinque, più o meno quelli che spetteranno a ognuna delle tre formazioni nordirlandesi (la più forte delle quali, il Democratic Unionist Party, è protestante e conservatrice e punta però più in alto, a 8 seggi) e al partito gallese del Plaid Cymru, progressista e guidato anch'esso da una donna, Leanne Wood.
 
La terza forza davvero decisiva sembra essere allora quella dello Scottish National Party, formazione progressista. Nonostante abbiano perso il referendum per l'indipendenza lo scorso settembre, sono dati in forte crescita. La loro nuova leader Nicola Sturgeon è stata uno dei grandi protagonisti dei dibattiti televisivi, e in Scozia, dove potrebbero passare dal 20 per cento del 2010 al 48 per cento, i loro candidati possono portare a casa addirittura più di 50 seggi sui 59 a disposizione, contro i 6 del 2010.
 
Lo Snp ha escluso ogni alleanza, sostiene che non sosterrà mai né un governo laburista né, tantomeno, conservatore. I laburisti escludono a loro volta un'alleanza con gli scozzesi. Ma il giorno dopo le elezioni potrebbero accordarsi su un governo di minoranza laburista che veda l'astensione dell'Snp.
 
La soglia magica per una maggioranza parlamentare è 326 seggi. Laburisti e conservatori, secondo i sondaggi, sono solo tra i 270 e i 280, e non supererebbero i 326 nemmeno con i probabili 25 dei libdem. Ecco perché c'è chi dice che, anche se il Labour dovesse prenderne qualcuno in meno dei Tories, sarebbe comunque in una posizione di forza, perché l'Snp è molto più vicino a loro che ai conservatori. A meno che ogni tentativo di alleanza fallisca e si debba tornare al voto, ad oggi lo scenario più probabile - se i sondaggi hanno ragione - è che uno dei due grandi partiti trovi in Parlamento l'appoggio persino di 3-4 forze minori, una delle quali magari tramite l'astensione. Il pentapartito sotto il Big Ben, per la gioia di Ciriaco De Mita.
 
La partita è dunque apertissima. A deciderla, secondo alcuni, potrebbero essere le minoranze, con i conservatori che attraggono solo il 16 per cento del voto nero e etnico. Ha fatto scalpore uno studio secondo cui i musulmani potrebbero decidere il risultato di un quarto dei collegi, ma era stato commissionato da un centro ricerche neoconservatore e pubblicato da un tabloid come “The Daily Mail”, insomma era nato per spaventare l'elettorato.

Alla fine solo una cosa è certa. A meno di eventi clamorosi, il premier sarà comunque il leader di uno dei due maggiori partiti. O Cameron o Miliband. Funziona così, d'altronde, dal 1922. Pazzo Regno Unito, ma sempre fino a un certo punto.