
Un accordo che finalmente «tira fuori il paese dall’angolo in cui l’avevano cacciato i conservatori», gli ultra-nazionalisti alla Ahmadinejad. Che premia il presidente degli Stati Uniti Barack Obama e quello iraniano, Hassan Rouhani, «un uomo di consenso». Ma soprattutto un accordo che per Jahanbegloo, docente alla York University di Toronto, costruttore di ponti tra culture diverse, appassionato interprete del pensiero non-violento, rappresenta un’occasione per tutti noi europei: quella di cominciare a guardare oltre gli stereotipi, e oltre il governo iraniano. Verso la società iraniana: «una società vera, vitale, che ha molte cose da dire su se stessa e sul modo in cui andrebbe riconfigurato l’intero Medio oriente». E che fa dell’Iran un paese che appartiene «al futuro del Medio oriente, non al suo passato».
Professor Jahanbegloo, dopo molti mesi di negoziato, trattative, dibattiti e discussioni estenuanti, finalmente è stato trovato un accordo sul programma nucleare iraniano. Come lo giudica?
É un momento importantissimo per tutti, un passaggio storico. Lo è innanzitutto per la diplomazia mondiale, perché l’accordo sul nucleare scongiura un attacco militare contro l’Iran e un’eventuale guerra in Medio oriente. L’accordo rappresenta un’ipoteca positiva sul futuro diplomatico nell’area, perché riporta l’Iran nel novero delle nazioni ‘a pieno titolo’, riconsegnandole quel ruolo di attore centrale in Medio oriente che storicamente ha sempre giocato. Credo che gli Stati Uniti, la Cina, la Russia, l’Europa abbiano compreso che non ci può essere alcuna politica di lungo respiro in Medio oriente senza il pieno coinvolgimento dell’Iran, che insieme alla Turchia rimane un esempio di stabilità e a ben guardare l’unico paese che conserva le istituzioni proprie di uno Stato-nazione: tutti gli altri non sono degli Stati-nazione, oppure sono Stati falliti, o sull’orlo del fallimento.
Il ministro degli Esteri iraniano, Mohammad Javad Zarif, ha dichiarato che l’accordo «non è perfetto per nessuno», ma rappresenta «il miglior risultato che potesse essere raggiunto». Ritiene anche lei che sia una «win-win solution», un trionfo della diplomazia?
Effettivamente è una soluzione vincente per tutti, una vittoria della diplomazia. Non dobbiamo dimenticare che la diplomazia non è un’arte semplice, non è mai perfetta e in alcuni casi è più complicata che in altri, come nel caso di due paesi come gli Stati Uniti e l’Iran che si portano dietro 35 anni di alti e bassi, senza vere e proprie relazioni diplomatiche. Un contesto davvero difficile. Ma l’accordo cambia le cose: è un capitolo inaugurale, un buon inizio per migliori relazioni future, in ambito diplomatico, politico, economico e culturale. Da questo punto di vista forse il vero vincitore sarà l’Unione europea, che tornerà a operare nel mercato iraniano e tornerà a essere un importante partner commerciale e politico dell’Iran.
In ogni accordo, si riceve qualcosa in cambio di altro. Cosa ha ottenuto la comunità internazionale rappresentata dai 5+1, e cosa invece l’Iran?
Anche se ancora non c’è una completa fiducia reciproca, sia gli americani che gli europei possono sentirsi sicuri sul fatto che l’Iran non svilupperà alcuna arma nucleare. Questo è ciò che hanno ottenuto. Il governo iraniano invece può dirsi soddisfatto per il progressivo smantellamento del sistema delle sanzioni, e per il conseguente effetto che questo passaggio avrà sull’economia. A uscirne vincitori sono anche i due presidenti. Da una parte Barack Obama, che puntava a concludere i suoi otto anni di governo con una vittoria politica e un evento storico come la riapertura delle relazioni con l’Iran. Dall’altra Hassan Rouhani, il presidente iraniano, il cui gabinetto diventerà sicuramente più forte. L’accordo ne stabilizza e rafforza il potere, in chiave interna e internazionale.
Subito dopo la sua elezione nell’estate del 2013, lei ha scritto che Rouhani, «uomo di consenso», sarebbe stata la persona giusta per rimodellare le relazioni dell’Iran con il resto del mondo. L’accordo è soprattutto una sua una vittoria?
È innegabile che l’accordo sia una vittoria di Rouhani. Con i suoi trascorsi nel Consiglio di sicurezza nazionale, oltre che come negoziatore proprio sui temi del nucleare, Rouhani ha compreso molto meglio del suo predecessore, Mahmoud Ahmadinejad, l’importanza del negoziato sul nucleare e gli interessi reali del paese. In Iran c’è gente – penso al pragmatico Rafsanjani, al riformista Khatami (entrambi già presidenti della Repubblica islamica, ndr) e ai suoi seguaci – che ha compreso una cosa essenziale, ben chiara al presidente Rouhani: il futuro del paese viene prima ed è al di sopra degli interessi ideologici, perfino islamici. L’accordo sul nucleare va letto in questa chiave: è un passo importante perché segnala la de-ideologizzazione della politica iraniana. Tira fuori il paese dall’angolo in cui i conservatori l’avevano cacciato.
Ma ai conservatori l’accordo non piace affatto. C’è perfino chi, come Abulhassan Banisadr, primo presidente dopo la rivoluzione islamica del 1979, ritiene che sia «una resa e una sconfitta assoluta». In che modo l’accordo condizionerà il quadro politico iraniano?
Nel paese ci saranno ripercussioni enormi, in primo luogo per gli aspetti economici: l’Iran potrà produrre giornalmente una maggiore quantità di petrolio, la svalutazione del rial potrebbe fermarsi, il tessuto economico tornare a rafforzarsi, l’inflazione scendere, così come i tassi di disoccupazione. Tutto ciò si rifletterà inevitabilmente sul quadro politico, perché gli uomini del gabinetto di Rouhani, e oltre a loro i riformisti e i pragmatisti alla Rafsanjani, potranno presentarsi alle parlamentari del prossimo anno certi di ricevere un consenso molto alto. Il prossimo anno potremo giudicare in tutta la loro ampiezza gli effetti di quest’accordo sul quadro politico. Per ora, io immagino ripercussioni straordinarie.
Lei ha sempre prestato molta attenzione alla società civile iraniana, curando anche un libro a più voci, Democracy and Civil Society in Iran. Che tipo di effetti potrebbe avere l’accordo sul nucleare sul futuro della società civile iraniana e sulle libertà civili all’interno della Repubblica islamica?
L’effetto sulla società civile e sulle libertà civili sarà rilevante. Non è un caso che molti attivisti iraniani in questi mesi si siano schierati apertamente in favore di un accordo: sapevano che un simile accordo avrebbe ri-aperto l’Iran al mondo e favorito i contatti tra l’Europa e la società iraniana, tra gli Stati Uniti e l’Iran. Riaprire i canali di comunicazione è essenziale, anche per il rafforzamento dei diritti umani. Subito dopo l’accordo e la sua applicazione, ci sarà inevitabilmente più interesse verso l’Iran, verso le trasformazioni della società, più giornalisti e diplomatici stranieri avranno occasione di conoscere un paese che, sotto il regime di Ahmadinejad, si è distinto soltanto per la sua chiusura oltranzita. Ciò favorirà la società civile e i diritti umani. Dirò di più: credo che per gli iraniani sia proprio questo l’aspetto più promettente. Finalmente gli europei e gli americani potranno vedere quel che c’è oltre il governo iraniano: una società vera, vitale, che ha molte cose da dire su se stessa e sul modo in cui andrebbe riconfigurato l’intero Medio oriente.
Gli effetti dell’accordo si rifletteranno non solo sul piano interno, ma inevitabilmente anche su quello internazionale, modificando gli equilibri di potere in Medio oriente. Crede che l’accordo sia una legittimazione dell’Iran come attore politico regionale e globale?
Tutti gli analisti concordano su questo: l’accordo nucleare legittima l’Iran come paese centrale non solo nel Golfo Persico, ma per tutto il Medio oriente. Anche perché riconosce che senza il coinvolgimento dell’Iran è ormai impossibile trovare una soluzione ai conflitti iracheno e siriano e combattere adeguatamente lo Stato islamico. Oltre a questo, sono convinto che americani ed europei si siano resi conto che molti governi e regni della penisola arabica e della regione non abbiano veramente un futuro davanti a loro. Penso a paesi come l’Arabia saudita, il Qatar, il Kuwait, ormai prigionieri della loro ideologia, bloccati da un pensiero dal respiro molto corto. Sono paesi che devono necessariamente cambiare. Sul lungo periodo, nell’area c’è bisogno di paesi in cui la società sia stabile, più secolarizzata, più pro-occidentale. L’unica società del Medio oriente che risponde a questi criteri è quella iraniana. È una società demograficamente molto giovane, pro-occidentale, che guarda non al jihadismo ma al secolarismo come orizzonte di riferimento. Se un giorno si terranno elezioni libere in Iran, i partiti secolari prenderanno il 90% dei voti. L’Iran appartiene al futuro del Medio oriente, non al suo passato.
[[ge:espresso:opinioni:libero-mercato:1.188558:image:https://espresso.repubblica.it/polopoly_fs/1.188558.1416383415!/httpImage/image.jpg_gen/derivatives/articolo_480/image.jpg]]In effetti il presidente Obama ha dichiarato che l’accordo renderà il mondo «più sicuro». Ma il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu la pensa diversamente. Per lui si tratta di «un errore storico», che garantirà all’Iran «centinaia di miliardi di dollari con cui alimentare la sua macchina del terrore...». Chi ha ragione?
Netanyahu sbaglia. In ogni caso non credo che la sua vera preoccupazione riguardi il nucleare iraniano, ma il rischio di una proliferazione nucleare in Medio oriente, che potrebbe modificare i rapporti di forza, contro gli interessi israeliani. Già oggi ci sono paesi come il Qatar e l’Arabia saudita che ricorrono all’aiuto dei pakistani sul nucleare, in funzione anti-israeliana, un paese di cui contestano l’egemonia regionale. Netanyahu è preoccupato di questo. La retorica degli anni passati usata tanto a Teheran quanto a Tel Aviv su un attacco reciproco va ormai archiviata. E non dobbiamo dimenticare che in Iran da duemila anni vive un’importante comunità ebraica. Oggi è chiaro a tutti che quando Netanyahu parla dell’Iran come forza diabolica è solo una mossa retorica. Non bisogna dargli ascolto. I veri diavoli sono i militanti e gli ideologi di al-Qaeda e dello Stato islamico.
Eppure il rischio che l’accordo possa intensificare la competizione regionale tra l’asse sunnita che ruota intorno all’Arabia saudita e quella sciita che fa capo all’Iran esiste. Anche lei ne ha scritto. Non dovremmo preoccuparcene?
Il problema esiste, non va sottostimato: anche se non c’è una vera e propria guerra dichiarata, l’Arabia saudita e l’Iran si combattono, attraverso i rispettivi emissari in paesi come l’Iraq, lo Yemen, il Bahrain, dando luogo a vere e proprie guerre settarie. Ma il governo iraniano di Rouhani mi pare sia orientato sulla giusta strada. Ha provato a ristabilire buone relazioni con l’Arabia saudita, per esempio recandosi a Riyadh subito la morte del re Abdullah. Molto dipenderà però dalle pressioni che l’Europa e gli Stati Uniti eserciteranno sull’Arabia saudita e sul Qatar affinché cambino la loro politica: non dimentichiamo che i responsabili dell’affermazione e della diffusione dell’ideologia salafita in Medio oriente sono proprio questi paesi.