Ad Addis Abeba, al mattino presto, per le strade polverose si agitano dozzine di fantasmi con grandi cappelli di paglia e guanti di plastica. Sono le spazzine, tutte donne. Fanno il lavoro più improbabile del mondo: cercar di tenere pulita una metropoli sudicia in ogni suo angolo, inferno di fango e calcinacci, immenso cantiere di cemento. E anche lì, nei cantieri, ecco altre donne: infazzolettate per non respirare la sabbia, trasportano sacchi dal mattino alla sera. Di donne sono poi le migliaia di braccia che coltivano e recidono fiori nelle immense campagne a sud della capitale, dove crescono le rose che ogni giorno arrivano in aereo in Europa. E di donne sono le sagome chine al tramonto sui campi di teff, l’unico cereale che cresce a queste altitudini, la cui farina è materia prima per il cibo nazionale etiope, una spugnosa focaccia chiamata injera . E, ancora, donne sono le vittime del grande traffico di esseri umani e che finiscono semischiave nelle case dei ricchi sauditi, libanesi o kuwaitiani.
[[ge:rep-locali:espresso:285588071]]Donne come Toiba, ad esempio: 37 anni, l’abito blu cobalto, dopo sei anni in Arabia è tornata nelle campagne di Wuchale, nel nord dell’Etiopia. Nata come tante in un villaggio di montagna, a 12 anni è stata data in sposa a un uomo di 28 che lei non voleva. Scappata poco dopo in valle, si è lasciata convincere che la sua unica chance di vita fosse emigrare. Un broker le ha arrangiato il viaggio per 24 mila birr, più di mille euro: «Ma non preoccuparti, me li ridarai a poco a poco, in Arabia guadagnerai bene».
Così Toiba si è ritrovata in una casa di Gedda al servizio di una famiglia di 24 persone. E lei, unica domestica, a lavorare 21 ore al giorno: le altre tre poteva dormire. Giorni liberi? Uno al mese, che Toiba ovviamente passava a letto. Per sei anni, fino allo sfinimento e fino alla decisione di scappare, consegnandosi alla polizia saudita. «Mi hanno messo in una grande cella con altre 50 etiopi come me, era terribile. Alcune sembravano impazzite», racconta. Dopo due settimane è stata prelevata e imbarcata su un aereo per Addis Abeba. Con i soldi che aveva in tasca è riuscita ad arrivare a Wuchale. Lì ha conosciuto la famiglia di quello che sarebbe diventato suo marito: il secondo, quello che ha potuto scegliere. Oggi hanno tre figli, lui coltiva la terra, lei vende piccole cose in un negozio-baracca. Tutto sommato è felice, dice.
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Sempre a Wuchale abita Asrebeb, 16 anni di cui i primi 14 trascorsi in un villaggio: nemmeno sapeva cosa c’era oltre la montagna. Un mattino di due anni fa se n’è andata, a piedi e senza niente, in cerca di qualcosa di meglio di quella vita fatta di fame e di capre. Ha camminato per i sentieri otto ore poi ha preso l’autobus che l’ha portata ad Addis, dove ha trovato lavoro come domestica: dieci euro al mese più vitto e alloggio, nessun giorno libero, sempre a disposizione per pulire la casa, cucinare, accudire i ragazzini. La scorsa primavera è scappata anche lei. A Wuchale ha trovato una vedova con due figli che le ha offerto ospitalità e lo stesso salario che prendeva ad Addis, ma con orari più umani. E lei ha accettato: «La signora mi ha promesso che a settembre posso tornare a scuola», dice. «Spero che mantenga la parola».
Già, andare a scuola, fare le secondarie. È il grande sogno di tutte, qui, l’unico che può sottrarre agli altri destini possibili di chi nasce donna in Etiopia: il lavoro in campagna, l’emigrazione, l’urbanizzazione nella capitale che può portarti a fare la spazzina ma anche la prostituta su Cecenia Road, dove le adolescenti si offrono per due dollari.
A Wuchale ce n’è una, di scuola secondaria, e tra le ragazze che la frequentano una trentina sono lì grazie a una Ong italiana, il Cifa di Torino, che insieme a un’associazione locale sta provando a dare una speranza a qualcuna. Come Desta, 18 anni, nata nel villaggio di Teremchg, 12 ore di cammino da Wuchale: «La nostra vita era un campo di fagioli e una mezza dozzina di capre», racconta. «Il problema era l’acqua, perché al villaggio non ce n’era e per prenderla bisognava raggiungere il fiume, mezz’ora a piedi ad andare e un’altra mezz’ora a tornare. Quello era il mio compito a casa, oltre a pascolare le capre. Però per fortuna i miei hanno continuato a mandarmi a scuola e così quando ho finito l’ottavo anno sono stata selezionata per venire qui. Ora voglio diventare un medico e lavorare in ospedale. Ce n’è bisogno da queste parti, di medici», sorride.
Certo, di medici. Ma anche di ingegneri, come nel sogno di Workwha, 17 anni, nata nel villaggio di Abet: «Papà e mamma stanno ancora lì con mia sorella, hanno una mucca, due capre e un piccolo campo. Quando ho imparato a toccarmi l’orecchio sinistro passando la mano destra sopra la testa voleva dire che ero abbastanza grande per iniziare le elementari: da noi si fa così, se non si è registrati all’anagrafe. Però non c’erano scuole al mio villaggio: la più vicina era a due ore di cammino. Così, per otto anni, tutti i giorni mi sono alzata alle cinque per essere in aula in tempo, e a casa tornavo che era mezzo pomeriggio. Ma ero la più brava della classe, mi è sempre piaciuto studiare. Anche qui a Wuchale, ho tutti ottimi voti. Farò l’ingegnere civile, voglio aiutare il mio Paese a svilupparsi», dice.
Birtukan, 18 anni, viene invece da Yebar, un villaggio a circa un’ora di autobus più tre di cammino. Per lei, racconta, «i problemi sono iniziati sei anni fa, per via della carestia: quella stagione è piovuto pochissimo e la terra è rimasta secca; dopo un po’ hanno cominciato a morire le capre e siamo rimasti senza niente. Ricordo la fame che mi feriva la pancia, la sera; e la stessa fame al mattino, appena sveglia. Ma adesso che sono qui, a scuola, non ci voglio più pensare».
Tsehai Teshome è un’altra ragazza di Wuchale. Più grande, attorno ai 30 anni. Lei in questa cittadina etiope fa la poliziotta, ma con una missione particolare: proteggere le altre donne in una realtà in cui sono troppo spesso schiave. Ma non è sciocca, Tsehai, e ha capito che se si limitasse a fare il suo lavoro non servirebbe a niente: al massimo, a mandare alla sbarra qualche stupratore. E allora, a poco a poco, si è trasformata in qualcosa d’altro: una specie di consulente familiare, mediatrice coniugale, assistente sociale. A lei si rivolgono le adolescenti finite per fame in un bordello; a lei chiedono aiuto le mogli picchiate, così come quelle ripudiate e poi buttate per strada. E ancora, nel suo scalcinato ufficio arrivano le ragazze che, dopo essere rientrate dall’Arabia Saudita, al villaggio non hanno ritrovato più una casa, una famiglia, un posto dove stare. Non può fermare il mare con le mani, Tsehai, ma prova a fare qualcosa ogni giorno, con tutte le sue statistiche scritte a penna - stupri, botte, privazioni dei beni etc - e con le parole che dice alle donne e ai loro uomini. La sua missione, spiega, è cambiare le cose a poco a poco, smontare pezzettino per pezzettino una cultura del sopruso che ha migliaia di anni.
Sono Tsehai - e quelle come lei - la speranza dell’Etiopia. Un Paese che cresce veloce e caotico, con una capitale sterminata che vuole diventare l’ombelico del Continente: ad Addis c’è anche la nuova modernissima sede dell’Unione Africana e qui arrivano i leader d’Occidente quando vogliono parlare a tutta l’Africa (ultimo Renzi, a metà luglio). Ma dietro l’ambizione di questo Paese ci sono, appunto, Tsehai e le altre: ragazze che studiano, che lavorano, che lottano, che non vogliono emigrare ma rifondare daccapo una nazione di quasi cento milioni di abitanti, dove fin dai tempi di Erodoto tutto era sempre stato dominio solo dei maschi: e senza grandissimi risultati, per la verità.
Un reportage realizzato nell’ambito del progetto europeo Dev Reporter Network (n. DCI-NSAPVD/2012/279-805)