Vent'anni dopo, invece di considerare Srebrenica un terribile monito per quest’Europa e la prova che non si è mai al riparo dall’orrore, la zuffa furibonda sull’attribuzione delle responsabilità, accompagnata dai distinguo lessicali su come definire ciò che successe, è il segno di una memoria che si ostina a non essere condivisa. Perché la tentazione riduzionista, quando non negazionista, è in agguato se si cercano alibi per il proprio gruppo etnico. Se i propri criminali valgono di più degli innocenti dell’altra sponda.
Eppure, da subito, dall’immondo 11 luglio 1995, tutto fu chiaro. Non c’erano cronisti, a Srebrenica: i serbi di Bosnia non volevano testimoni diretti del massacro dei musulmani di Bosnia. Però c’erano i caschi blu olandesi, ridotti all’impotenza dalla soldataglia del generale Ratko Mladic e del suo capo politico Radovan Karadzic.
[[ge:rep-locali:espresso:285157134]]C’erano le telecamere delle tv degli aggressori che rilanciarono le immagini degli uomini dai 12 anni in su (12 anni!) divisi da donne, vecchi e infanti. Il generale Mladic che accarezza la testa di un ragazzo biondo con un gesto che doveva suonare familiare e risultò sinistro, l’ultima rassicurazione alla pecora mandata al macello.
In migliaia tentarono la fuga dall’enclave dichiarata “zona protetta” dalle Nazioni Unite, passando dai boschi, in direzione Tuzla, distante 40 chilometri. Durante quell’esodo straccione e disperato a molti mancò il coraggio di immaginare un futuro e si fecero esplodere granate sul petto pur di non cadere nelle mani dei miliziani. Una donna che pure arrivò in territorio libero si suicidò appendendosi a un albero: il suo vestito a fiori che dondolava nel sole impietoso fu per giorni l’emblema della carneficina.
I serbi cercarono di negare le responsabilità, ma furono inchiodati dalle fosse comuni che spuntavano davvero come i funghi, peraltro copiosi in quello scenario silvestre.
Srebrenica, in capo a tre anni di assedio, aveva 42 mila abitanti di cui 36 mila rifugiati dai villaggi limitrofi lungo la valle della Drina. La contabilità a oggi dell’eccidio recita: 8.372 vittime accertate, ma per i musulmani ne mancano all’appello almeno alcune migliaia (i serbi oggi stimano una cifra lievemente inferiore); 6.241 i cadaveri identificati, grazie a un lavoro senza precedenti degli anatomo-patologi; 115 quelli di fresco riconoscimento che troveranno sepoltura il prossimo 11 luglio nel mausoleo di Potocari, la località dove c’era, all’interno di una fabbrica di accumulatori, la base degli olandesi; 800 gli scheletri con parti mancanti che le famiglie aspettano di interrare nella speranza di ricostruirne la totalità. Il tribunale dell’Aja sui crimini nella ex Jugoslavia ha sentito circa mille testimoni. Venti gli imputati, quasi tutti alti ufficiali serbo-bosniaci, 14 dichiarati colpevoli, 4 processi ancora in corso (compresi quelli a Karadzic e Mladic). E per la prima volta è stato riconosciuto il reato di genocidio.
Per il ventennale sono annunciati Bill Clinton, la regina di Giordania, la principessa Anna d’Inghilterra, Federica Mogherini per la Ue, il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni e molti suoi omologhi, i presidenti di Slovenia, Croazia, Montenegro. Non della Serbia: Srebrenica divide ancora, nell’anniversario tondo di più. Appena a monte di Potocari, e sulla terra dove fu trovata una fossa comune, i serbi hanno cominciato a costruire una chiesa ortodossa. Più che una provocazione, uno sfregio, la dimostrazione sfacciata e beffarda di una ragione difesa contro ogni evidenza e in virtù dei supposti, ma mai accertati da un tribunale indipendente, 2.500 correligionari uccisi dalle scorribande di milizie musulmane lì nei dintorni, in quegli anni fatali tra il 1992 e il 1995.
A gettare benzina sul fuoco, e parecchio fumo negli occhi, l’arresto a Berna qualche giorno fa con l’accusa di omicidio di Naser Oric, comandante musulmano della difesa di Srebrenica, su mandato di cattura della Serbia eseguito dall’Interpol: Oric era già stato giudicato all’Aja e assolto.
Nessuna conciliazione, tantomeno oblìo. E i Balcani che producono al solito più storia di quanta ne riescano a consumare, vivono l’eterno presente di torti veri o presunti. Spesso pretestuosi anche quando sono veri. In questo quadro complicato ci mancava l’intrusione abusiva della contemporaneità globalizzata. Sottoforma di un video di venti minuti di “Al-Hayat”, il centro stampa e propaganda dello Stato Islamico, che promette-minaccia: «L’ Islam sta tornando in Europa per difendere i musulmani e terrorizzare gli infedeli». In nome di una vendetta postuma contro l’uccisione dei correligionari a Srebrenica e per impedire che un’altra Srebrenica si ripeta. C’è un tale Abu Jihad al-Bosni che chiede ai compatrioti di unirsi al califfato di Abu Bakr al-Baghdadi e spinge a usare ordigni e autobombe, persino ad «avvelenare il cibo» degli infedeli.
Difesa dannosa, naturalmente. Torbida quanto basta per indurre i serbi più estremisti a rivendicare una ragione a posteriori per opporsi a quella che definivano l’avanzata dei “balja”, cioè i turchi, nelle terre della santa ortodossia. Quando all’epoca i cosiddetti “musulmani” di Bosnia erano in realtà più o meno tutti miscredenti se non dichiaratamente atei: e qualche radicalizzazione c’è stata in seguito, effetto e non causa della guerra degli anni Novanta.
Al netto e al riparo dagli imbrogli su quello che è stato il più grande massacro compiuto sul suolo europeo dopo la Seconda guerra mondiale, resta la realtà incontrovertibile della volontà di annientamento di un’intera etnia in una fetta di territorio che doveva essere ripulita per creare un’omogeneità razziale (naturalmente presunta se esiste solo una razza: quella umana). È davvero noioso dover assistere allora a prese di posizioni piuttosto stantie come quella di Efraim Zuroff del Centro Wiesenthal sul fatto che «né in Ruanda né a Srebrenica c’è stato uno sterminio di massa su scala industriale». E dunque non può essere spesa la parola “genocidio”. Quando l’unicità della Shoah riguarda semmai le dimensioni, non il disegno di annientamento che si è purtroppo ripetuto nonostante il “mai più” di Primo Levi e la sua diversa modulazione è la conseguenza della perizia con cui vengono messe a punto la burocrazia e la meccanica dell’intenzione violenta.
Il secolo scorso, fin troppo lungo, aperto col genocidio armeno, è proseguito di orrore in orrore fino al genocidio politico dei desaparecidos argentini e a quello fintamente “etnico religioso” dei musulmani di Bosnia. Catalogare le vittime di quest’ultimo come figlie di un genocidio minore perpetua i malintesi e annacqua il giudizio su un episodio cruciale per il Continente. Né sono estranee a questa postura le colpe diffuse che vanno oltre quelle dei pianificatori e dei meri esecutori. Srebrenica era un’ “area protetta” sotto l’egida e per Risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, dunque della comunità internazionale tutta. Se, nel 1993, si arrivò ad adottare un simile pronunciamento è perché si temeva quanto poi si sarebbe verificato di lì a due anni senza che ci fossero né la forza né la volontà politica di impedirlo. Un governo olandese cadde nel 2002, sette anni dopo, travolto dall’onda d’urto dell’inazione dei suoi soldati. Gli stessi a cui però, con ipocrisia sconcertante, nel 2006 venne consegnata la medaglia d’onore del proprio ministero della Difesa.
In mezzo, l’amara considerazione che Srebrenica doveva cadere per preparare il terreno alla pace di Dayton che sarebbe stata firmata dopo quattro mesi. E che ha sancito la spartizione della Bosnia-Erzegovina su base etnica. Un peccato originale che l’Europa sta ancora scontando e che al mercato della sopravvivenza dei suoi valori conta anche più degli indici di Borsa, degli spread e della stabilità dell’euro. Perché è breve il passo tra la chiusura in clan tribali e i sigilli che si vorrebbero mettere alle sue frontiere esterne.