Nonostante gli scambi di prigionieri e il disgelo, Washington non intende restituire a l'Havana Ana Montes, considerata l’agente più pericolosa per la storia americana. E che agiva non per soldi ma per fede politica

Ana Montes, la regina delle spie che gli Stati Uniti non vogliono ridare a Cuba

A volte il soprannome dice tutto. Che una spia venga chiamata “La regina di Cuba” è indicativo che non si tratti di una pedina qualunque. E infatti Ana Belén Montes, 58 anni, è stata l’agente segreto più importante dei servizi cubani di tutti i tempi, benché sia quasi sconosciuta e la sua storia languisca ignorata in una cella del carcere di massima sicurezza di Fort Worth, in Texas, da dove uscirà il primo luglio del 2023, una volta scontata la pena a 25 anni a cui è stata condannata per spionaggio.

Nel balletto tra Cuba e Stati Uniti dell’ultimo anno e mezzo, la Montes non è stata mai proposta per lo scambio dei prigionieri che ha dato il via al disgelo tra i due Paesi mettendo in moto un processo in cui il passo più recente è stato la riapertura delle ambasciate dopo 54 anni di vuoto diplomatico. Eppure il suo contributo è stato ben più importante di quello delle spie cubane rilasciate e la sua biografia ha tutti gli elementi di un avvincente personaggio da fiction.

Analista pluridecorata della Dia (Defense intelligence agency) per diciassette anni, era allo stesso tempo il fiore all’occhiello dell’intelligence cubana: di giorno analizzava i dati della Agency e di notte decodificava i messaggi in codice che le arrivavano attraverso le onde corte di una radio dell’Avana attraverso un programma del suo Toshiba laptop. In quei messaggi le venivano richieste informazioni “sensibili” che a lei toccava memorizzare durante il lavoro ufficiale e trascriveva su dischetti criptati per poi “passarle” ai contatti cubani che incontrava in diversi ristoranti cinesi di Washington. Dopo il suo arresto è stata definita una delle spie più pericolose della storia degli Stati Uniti.

anamontes-jpg
Per lungo tempo è riuscita a non farsi pizzicare, e anche i due viaggi illegali a Cuba, con passaporto falso e parrucca, passarono inosservati. Il primo è al 1985 e fu quello in cui venne addestrata. Quando, nel 1994, fu sottoposta alla macchina della verità, riuscì a non tradirsi grazie a un esercizio che consisteva nell’irrigidire i muscoli dello sfintere e che i cubani le avevano insegnato.

Soltanto dopo la cattura, quando gli psicologi della Cia la sottoposero a una lunga analisi, la Montes confessò che tutto risaliva all’infanzia nella famiglia agiata di origine portoricana il cui patriarca, psichiatra di Towson, vicino a Baltimora, era in famiglia così violento da aver indotto la moglie a lasciarlo portandosi dietro i quattro figli una dei quali, Ana, aveva sviluppato nel frattempo un’avversione inestirpabile per il potere e per gli abusi sui più deboli.

Non era un personaggio facile, la futura “regina”, nemmeno allora. Ed era poco socievole, caratteristica che si acuì con gli anni fino a sfociare in una sociopatia giustificata dallo stress del suo doppio incarico. Durante un viaggio-studio in Spagna ai tempi dell’università, conobbe un argentino di sinistra che le aprì gli occhi sull’appoggio degli Usa ai regimi in Sudamerica e lei diventò una militante che non perdeva una manifestazione.

Donna di ghiaccio
Agli amici sembrò dunque strano che accettasse un lavoro presso il Dipartimento di Giustizia americano, ma lei liquidò la cosa spiegando che «il lavoro è lavoro». In ogni caso, lo svolse così bene che un anno dopo era addetta alle “top-secret security clearance”, aveva cioè accesso ai file più sensibili e nel frattempo studiava Advanced International Studies presso la Johns Hopkins University School. Ottenne il master e cambiò lavoro, passando alla Dia.

Bilingue, di sinistra radicale e impiegata in un posto strategico, era a quel punto una preda troppo ghiotta per i servizi cubani che l’avvicinarono, al principio, per chiederle traduzioni in spagnolo ma la convinsero facilmente a svolgere incarichi più impegnativi. In poco tempo diventò la spia di punta grazie alla memoria prodigiosa, ai nervi inossidabili e a una totale dedizione alla causa in cui non si mischiarono suggestioni esotiche né ragioni sentimentali.

Tra il primo fidanzato cubano e il secondo intercorsero sedici anni e nessuno dei due fu memorabile: la prima relazione era durata il tempo di visitare l’isola oltre che di ricevere l’addestramento, la seconda venne combinata dai servizi cubani quando si accorsero che la sua solitudine rischiava di minarne l’abnegazione e terminò quando lei capì che quello che le serviva non era una liaison su commissione ma un cambio di vita. Eppure aveva avuto fama, fino a quel momento, di donna inattaccabile e dal cuore duro, e scoraggiava più di un corteggiatore con quel suo fare ispido che le guadagnò l’altro soprannome di “Regina di ghiaccio”.

Le foto che la ritraggono mostrano un viso non bellissimo e un po’ ostile ma pare che nella realtà non fosse priva di fascino, elegante e a suo modo sexy. Tra gli aspetti bizzarri c’è che i due fratelli Lucy e Tito erano stimati funzionari del Fbi, e lei stessa si era fidanzata con un collega del Pentagono poco prima che venisse catturata, quando quel doppio ruolo aveva cominciato a logorarla e lei pensava di mollare tutto per farsi una famiglia con quell’uomo di otto anni più giovane dal nome di un cattivo dei film: Roger Corneretto.

Dopo diciassette anni, Ana non era più quella di un tempo. Il proverbiale sangue freddo si era appannato dopo che la sorella Lucy aveva scoperto una rete di spie cubane sotto copertura e per prudenza i cubani avevano smesso di contattare la Montes fino a quando le acque non si fossero calmate.

Privata dell’impegno che aveva dato un senso alla sua vita, la Regina cadde in depressione, diventò ancora più asociale e prese abitudini inquietanti come lavarsi le mani di continuo. Già da tempo, peraltro, aveva cominciato ad assumere barbiturici e a indossare guanti quando guidava, per paura di contrarre infezioni.

L’uomo che cambiò il corso della sua vita non fu però Corneretto ma Scott Carmichael, il funzionario della Dia che la incastrò, uno che sospettava di lei da quando, anni prima, l’aveva interrogata su richiesta di un collega e che sulla cattura di Montes avrebbe scritto il libro “True Believer”. Dunque, capitò che una spia cubana che lavorava sull’isola per gli americani (probabilmente il great agent asset Rolando Sarraff Trujillo, uno dei due agenti scambiati alla fine del 2014) rivelò al Fbi che un’analista governativa di altissimo livello era in realtà una talpa che lavorava per Castro.

A condurre le prime indagini sulla donna, di cui il cubano sapeva ben poco, venne incaricato proprio Carmichael, che mise insieme i pochi dati forniti dalla spia, li incrociò sul database e non fu per nulla stupito di trovare nella rosa dei sospetti il nome di Ana Belén Montes: la superanalista così rispettata che nessuno gli diede retta, quando ventilò il dubbio che la talpa fosse lei. Eppure, dopo nove settimane di ricerche Carmichael aveva messo insieme abbastanza indizi da ottenere che l’Fbi aprisse una indagine il cui atto conclusivo fu la perquisizione dell’appartamento della donna, in cui venne trovato il Toshiba con il disco duro con le istruzioni dei cubani.

Mai pentita
La Montes era la specialista numero uno per Cuba e per il Nicaragua ed era a un passo dall’ennesima promozione quando la convocarono nell’ufficio del direttore, il 21 settembre del 2001, e le comunicarono che era in arresto per spionaggio. Montes non batté ciglio, chiese soltanto di chiamare un avvocato. Nello sbigottimento generale, tra i più increduli ci fu l’ignaro Corneretto, il fidanzato, mentre la sola a non mostrarsi stupita fu la sorella Lucy che a quel punto cominciò a spiegarsi molte cose: per esempio l’atteggiamento freddo e giudicatorio di Ana nei suoi confronti benché svolgessero lavori simili.

La Montes non ha mai rinnegato il suo lavoro per Cuba giustificandosi con il fatto che il mondo è un solo, grande Paese. «In questo grande Paese», ha dichiarato, «il principio dell’amore verso i propri vicini così come quello verso se stessi mi sembra la guida essenziale per relazioni armoniose». A salvarla dalla condanna a morte è stato il compenso esiguo che percepiva dai cubani, segno che aveva tradito non per interesse ma per un ideale.

Solo in una recente lettera a un parente mostra una vena scoraggiata di realismo amaro. È quando scrive: «La prigione è uno degli ultimi posti in cui avrei scelto di finire, ma ci sono cose nella vita per cui vale la pena andare in prigione. O vale la pena farle e poi uccidersi prima di passare troppo tempo in prigione». Un’amarezza forse acuita dallo scarsissimo riconoscimento da parte di Cuba. Unica consolazione, la canzone che le ha dedicato il cantante David Rovics. Titolo: “Song for Ana Belén Montes”.

LEGGI ANCHE

L'E COMMUNITY

Entra nella nostra community Whatsapp

L'edicola

Le guerre di Bibi - Cosa c'è nel nuovo numero de L'Espresso

Il settimanale, da venerdì 20 giugno, è disponibile in edicola e in app