
Carles Puigdemont, da poche ore a capo della Generalitat, si presenta con l’urlo di battaglia: «¡Viva Girona y viva Cataluña libre!», invocando anche alla seconda città catalana poiché ne è stato sindaco fino all’investitura di presidente. Quindi, nulla di nuovo sotto il sole catalano, anche se Puigdemont, ha tutt’altra statura e spessore politico rispetto all’uscente Mas, una volpe scaltrissima, sopravvissuto alle peggiori tormente parlamentari, indebolito soltanto negli ultimi anni da pesanti accuse personali di corruzione che lo avevano trasformato in una barzelletta, levandogli molta credibilità agli occhi dei suoi elettori.
Puigdemont ha lavorato per anni come caporedattore del quotidiano El Punt ed è laureato in filologia. Ama i classici letterari, sfida gli avversari infilando sulla punta della spada una dotta citazione. Ma di lui, di questo uomo dalla faccia e i modi gentili, sempre sorridente, rispetto al torvo e incartapecorito Mas, prima di oggi, si sapeva davvero poco. Presidente dell’Associazione Comuni indipendentisti della Catalogna, è apparso sul proscenio della politica catalana attorno al 2010, l’anno in cui il sentimento autonomista tornò a crescere con più vigore e lui andava dichiarando che bisognava «Respingere gli invasori», spagnoli o belgi che fossero, creando un corto circuito con la storia.
Appena eletto, parlando nell’emiciclo del Governo di Barcellona, Carles, il respingitore, ha scaldato subito gli animi dei nazionalisti, impantanati da quattro mesi di mancanza di un leader. «Concluderemo entro il 2017 il processo di indipendenza», ha dichiarato con troppa faciloneria, dimenticandosi che la strada è ancora più lunga se si deve riscrivere la Costituzione custodita a Madrid e convincere Bruxelles. Un cammino difficilissimo anche perché la politica catalana è molto più complessa di quanto possa apparire a una prima lettura: la radicalizzazione indipendentista ha cancellato i concetti di destra, centro e sinistra, sostituendoli con tre nuovi fronti: i nazionalisti, favorevoli a una dichiarazione unilaterale d’indipendenza; i favorevoli al «diritto a decidere» da parte dei catalani, ma non alla secessione e, infine, il fronte nazionalista-centralista che è comunque contrario a ogni tipo di consultazione popolare e modifica dello status quo. E i quattro mesi di stagnante ingovernabilità, in cui la Catalogna post elettorale è piombata, da settembre fino al 10 gennaio, lo dimostrano. Come il medesimo rebus politico che, a quasi quattro settimane dalle elezioni, avvolge Madrid, incapace di creare un nuovo esecutivo, dopo la fine del celebre e granitico bipartitismo che durava da quarant’anni.
Carles, il filologo-giornalista con la battuta pronta, dovrà, innanzitutto, tenere al caldo il sentimento indipendentista, scaldato anche dalla crisi economica che ha esasperato gli animi dei catalani, convinti che la causa sia l’esecutivo di Madrid. Dovrà, quindi, buttare sul tavolo della trattativa con Madrid, non solo i più che ribaditi motivi economici (la Catalogna contribuisce per il 18 per cento al Pil spagnolo), ma anche ricordare più nobili ragioni storiche: i catalani, da sempre, si sentono diversi dal resto degli spagnoli. Per la loro storia e, soprattutto, per la loro lingua: quel catalano, una lingua romanza, che alle orecchie dei madrileni o dei sivigliani suona più incomprensibile del polacco. Quella lingua che la dittatura franchista proibì, anche con la persecuzione a colpi di garrota, disintegrando ogni barlume di autonomia conquistata dai catalani nei decenni bui del pugno del Caudillo. Quel catalano, come sa bene Puigdemont, che viene preso in giro da vent'anni sulla tv pubblica spagnola con “Polonia”, il programma satirico più visto, dove, per l’appunto, i catalani sono i “polacchi”, gente incomprensibile per la loro lingua e per le loro ragioni separatiste.