Una app per sfuggire alla polizia religiosa. In Iran nei giorni scorsi un anonimo gruppo di sviluppatori ha lanciato Gershad, un'applicazione per smartphone che permette di segnalare, ed evitare, i luoghi dove si appostano gli agenti della Gasht-e-Ershad, la polizia “morale”.
Temuta soprattutto dai più giovani, a cui vanno strette le regole sull'abbigliamento che prevedono pochi fronzoli e tanta austerità, la polizia religiosa spunta a sorpresa in molti angoli delle principali città iraniane. Nei luoghi di ritrovo, agli incroci delle strade, nei pressi delle università, le unità di controllo - composte da solerti funzionari barbuti e da un paio di colleghe donne - monitorano, verificano, sanzionano. E in molti casi puniscono.
L'applicazione Gershad, che per ora opera soltanto su sistema Android, acquisisce dati tramite il crowdsourcing. Il successo o il fallimento dell'applicazione, scrivono i promotori sul loro sito, dipende dagli utenti: «le informazioni sulla posizione delle pattuglie vengono segnalate dagli stessi cittadini, che cooperano strettamente, e l'accuratezza delle informazioni dipende da voi». Quando un numero sufficiente di utilizzatori segnala la posizione di un'unità della polizia religiosa, sulla mappa viene evidenziato il pericolo. Quando le segnalazioni diminuiscono, gradualmente scompare l'allerta.
Quante più sono le segnalazioni, e quanto più accurate, tanto maggiore è la possibilità di evitare uno spiacevole incontro con la polizia religiosa. A cui basta poco per individuare una colpa, una deviazione dalla condotta morale ortodossa, uno sconfinamento dei limiti imposti dal codice morale della Repubblica islamica. A rimetterci, sono soprattutto le ragazze. Una ciocca di capelli giudicata “sbarazzina” che spunta sotto il velo, un hijab troppo colorato, un abbigliamento vistoso, un mantello aperto che lascia intravvedere le forme e si è sanzionate, ammonite, accusate e, a volte, spedite di fronte a un magistrato.
Anche se inferiore rispetto agli anni del governo Ahmadinejad - il presidente ultraconservatore che ha ulteriormente isolato il paese e represso le manifestazioni antigovernative -, l'attività della polizia morale continua a essere impressionante, anche a causa di un ampissimo margine di interpretazione della legge. In un anno (marzo 2013-marzo 2014), secondo i promotori dell'applicazione la polizia avrebbe ottenuto «che 207mila donne che avevano violato la legge», a causa di un abbigliamento troppo lascivo, ammettessero le proprie «colpe» per iscritto, promettendo di non ripetere l'errore; altri 18mila casi sono stati riferiti alla magistratura, senza contare gli ammonimenti per quasi 3 milioni di cittadini.
Pochi, per i settori più conservatori dell'establishment politico-religioso, che invocano un controllo maggiore sui comportamenti dei giovani e lamentano la scarsa attenzione da parte della polizia. Troppi, per quei giovani iraniani cresciuti con imposizioni, controlli, abusi ingiustificati, arresti arbitrari, libertà negate o represse, e che oggi sembrano dire basta.
Una libertà che le autorità vogliono negare. Da Teheran, arrivano infatti segnali preoccupanti: c'è chi sostiene che, neanche 24 ore dopo il suo debutto online, l'applicazione sia stata già bloccata dai censori del governo. Mentre i programmatori starebbero cercando di aggirare i filtri della censura. Quel che è certo è che la parte più conservatrice del governo vede con preoccupazione l'attivismo online, e ha adottato nuove strategie per impedire la libertà di espressione. Sul web quanto per strada.
«Perché dovremmo essere umiliati per un diritto ovvio, la scelta dei vestiti che indossiamo?» si chiedono i programmatori di Gershad, rivolgendosi a tutti i cittadini iraniani, ma strizzando l'occhio soprattutto ai più giovani. Che sono tanti.
L'Iran è un paese di 75 milioni di abitanti. Il 65% della popolazione ha meno di 35 anni, è nato dunque dopo la rivoluzione che nel 1979 ha rovesciato la Shah, finendo per imporre rigide regole di condotta e un regime politico oppressivo, la cui legittimità è sempre più in discussione. Il tasso di istruzione è alto: il 58% dei giovani tra i 18 e 24 anni frequenta l'università. Nel paese, ci sono circa 5 milioni di studenti universitari. La consuetudine con gli strumenti tecnologici è alta. Si stima che il 72% della popolazione tra i 18 e 29 anni abbia accesso agli smartphone, che il 42% di chi vive nelle aree rurali acceda ai social network, mentre la blogosfera continua a crescere. I social network più conosciuti (da Facebook a Twitter) sono censurati o bloccati dalle autorità, ma è facile superare le barriere. E si trovano sempre nuovi strumenti per comunicare, fare politica, divertirsi o sbeffeggiare i clerici al potere.
Lo dimostra il caso di Telegram, l'applicazione di messaggistica che secondo un recente articolo del Guardian verrebbe usata da 20 milioni di utenti, quasi un iraniano su quattro. Garantisce standard di privacy maggiori rispetto ad applicazioni simili, è diventata un importante canale per lo scambio di informazioni e commenti politici. E potrebbe giocare un ruolo cruciale proprio in questo periodo, con l'avvicinarsi di importanti scadenze elettorali.
Il 26 febbraio gli iraniani voteranno infatti per il rinnovo del parlamento nazionale (290 membri) e per il Consiglio degli Esperti (88 membri), l’organo di giuristi e religiosi che è in carica per 8 anni e ha il compito di eleggere il Leader supremo, la massima carica dello Stato. La partita è cruciale: dal risultato di entrambe le elezioni dipenderà l'equilibrio di potere all'interno della Repubblica islamica, scossa da profondi rivolgimenti interni, con un esecutivo guidato da un “moderato” come Hassan Rohani e un Parlamento a maggioranza “principialista”, come vengono definiti quanti rimangono fedeli ai principi della rivoluzione islamica del 1979. Divisi tra conservatori tradizionalisti, falchi e realisti, i principialisti oltre al Parlamento controllano anche l'Assemblea degli Esperti, le Guardie della rivoluzione e il temuto corpo paramilitare dei Basij.
In vista delle prossime elezioni, il presidente Rohani, figura di riferimento dei “moderati-centristi”, cerca di capitalizzare politicamente i successi diplomatici legati all'intesa sul nucleare iraniano. Rivendica la paternità di un accordo con il gruppo dei 5+1 (Usa, Cina, Francia, Germania, Russia e Regno Unito) che ha permesso all'Iran di rientrare nel consesso della comunità internazionale e di eliminare parte delle sanzioni che da decenni gravavano sull'economia, frenandola.
Sa che dall'esito delle elezioni dipenderà un suo eventuale secondo mandato presidenziale. E anche per questo cerca di convincere la fascia più giovane della popolazione. A cui ammicca spesso, anche sui temi morali. Dalla sua elezione, nel 2013, non ha risparmiato critiche, per esempio, proprio alla polizia religiosa. Tanto da arrivare a dire, lo scorso aprile, che «compito della polizia non è far rispettare l'Islam» e che tra i membri della polizia morale «nessuno può dire che le proprie azioni siano giustificate da Dio o dal profeta Maometto».
Una sconfessione bella e buona della polizia religiosa, che gli ha meritato la replica infuocata dell'ayatollah Mohammad Yazdi, portavoce del Consiglio degli Esperti, per il quale «il ramo esecutivo non può negare Islam, devo sostenerlo piuttosto. Se nega l'Islam, l'Islam a sua volta lo negherà».
Un botta e risposta che dimostra quanto siano ampie le spaccature all'interno dell'establishment iraniano. E quanto sarà accesa la competizione elettorale. Così, mentre Rohani rivendica i contratti firmati nel suo viaggio in Europa, Mohammad Reza Naghdi, a capo del corpo paramilitare dei Basij, sostiene invece che il presidente e il ministro degli Esteri Javad Zarif abbiano svenduto il paese, minando uno dei capisaldi della Repubblica islamica: «l'economia della resistenza».
E mentre in Italia si continua a discettare sui nudi femminili coperti per la visita a Roma del presidente iraniano, a Teheran Rohani finisce sotto i colpi dei giornali conservatori. Proprio a causa di una statua. Quella di Marco Aurelio, di fronte alla quale Renzi e Rohani hanno tenuto la conferenza stampa, a Roma. Una colpa, per i falchi iraniani. Perché l'imperatore Marco Aurelio «ha sconfitto gli iraniani nel periodo dell'impero dei Parti», e farsi fotografare sotto quella statua di bronzo contrasta con la crescente egemonia regionale dell'Iran. Così dice uno storico iraniano, Hussein Dehbashi, e così rilanciano i giornali e le agenzie stampa conservatrici come Nasim.
Oltre che sui media, la battaglia si gioca sui numeri e sui nomi. Quelli dei candidati ammessi alle elezioni. Il Consiglio dei guardiani, l'organo che ha il compito di approvare le candidature, proprio ieri è tornata sui suoi passi. Dei 12.123 candidati alle elezioni parlamentari, prima ne aveva ammessi soltanto il 40%, 4.816. Poi, dopo le critiche ricevute, è tornato sui suoi passi: sono 6.185, il 51% i candidati ammessi finora, tra cui 586 donne. Pochissimi, pare, sono i “riformisti” ammessi, anche se la lista definitiva verrà resa pubblica soltanto il 16 febbraio. Mentre per l'Assemblea degli Esperti sono stati giudicati idonei soltanto 161 candidati su 794. Tra gli esclusi, ha fatto molto rumore il nome di Seyed Hassan Khomeini, nipote dell'ayatollah Khomeini, il fondatore della Repubblica islamica.
Di fronte alla stretta dei conservatori, Rohani prova a strappare piccole vittorie. In un discorso del 7 febbraio su donne e sviluppo, ha dichiarato che sebbene «fare una scelta diventi molto difficile», a causa dei pochi candidati moderati ammessi alle elezioni, «dobbiamo comunque, in ogni circostanza, presentarci alle urne, il 26 febbraio». L'obiettivo, spiega, è quello di «piccoli passi». Troppo poco, probabilmente, per la generazione che dice basta agli abusi della polizia religiosa.