Anche il Belgio chiude le frontiere agli immigrati
“Abbiamo avvisato la Commissione europea che sospenderemo temporaneamente Schengen”. Una misura per impedire che i 4 mila migranti sgombrati dalla jungle di Calais possano attraversare il confine
“Abbiamo avvisato la Commissione europea che sospenderemo temporaneamente Schengen”. Anche il Belgio mette sotto naftalina il Trattato di libera circolazione, la paura è che lo sgombero di una grossa fetta della jungle di Calais, operazione annunciata il 12 febbraio ma ritardata oggi dal Tribunale amministrativo di Lille per via del ricorso di 10 Ong e 238 profughi, porti ad un esodo dei circa 4 mila migranti ammassati in condizioni infraumane verso est, verso la costa belga ed il porto di Zeebrugge, altro ottimo trampolino di lancio verso l'Inghilterra. Un'ipotesi da evitare a tutti i costi, secondo il governo di centro destra di Charles Michel.
E così da oggi Bruxelles metterà in campo, ha assicurato il ministro degli interni Jan Jambon, tra i 250 ed i 290 poliziotti per ripristinare controlli alle frontiere con la Francia lungo il Mare del Nord, l'obiettivo è chiaro: evitare a tutti i costi il sorgere di jungle in territorio belga. “Abbiamo già intercettato 32 persone ieri sera, ma il numero di migranti potenziali è stimato in migliaia”, ha affermato il ministro.
Misura estrema e di moda, quella del ritorno alle frontiere, che arriva dopo settimane di tensioni crescenti sul lato francese del confine. A fine gennaio il premier Michel ha inviato una lettera a Manuel Vals per chiedere “impegni concreti” dal punto di vista “umanitario e della sicurezza”. Anche Michel l'ha detto e ripetuto: “non vogliamo una jungle in Belgio”. Carl Decaluwé, governatore democristiano delle Fiandre occidentali è andato anche oltre: “Non date da mangiare ai migranti”, il suo invito alla popolazione, “sennò ne arriveranno altri”. Ma c'è poco da scrivere lettere e da lanciare appelli al popolo: “Anche se il governo dice di no, è chiaro che ci sarà una jungle qui, è solo questione di tempo”, ammette Toon Fonteyne, 34enne direttore operativo del commissariato della polizia locale di Veurne, villaggio di poco più di dieci mila anime fondato dai romani nella placida campagna fiamminga a pochi chilometri dal mare del Nord. I chilometri che contano a Veurne sono però altri: i 22 che li separano da Dunkerque, e i 65 da Calais, i due porti con contorno di jungle e disperazione. Fonteyne, modi estremamente affabili e cordiali, sa di cosa parla, la jungle belga potrebbe nascere proprio sotto il suo naso. D'altronde, ammette il poliziotto, “per i trafficanti di esseri umani il Belgio is the place to be”, il posto in cui stare e quindi in cui portare il loro carico di migranti che aspirano all'Inghilterra.
La stazione della polizia di Veurne sorge a ridosso di una bucolica zona di campi e laghetti, quel che resta della Sucrerie de Furnes, lo zuccherificio di Furnes (nome francese di Veurne), 46 ettari svuotati di ogni vestigia industriale, fino a dicembre quieta oasi di passaggio per gli uccelli e da due mesi teatro di ben altre migrazioni. “Prima facevo bird watching, ora migrants watching”, sorride Norbert mostrando il binocolo. È lui, barba, stivali e giacca pesante, il guardiano del terreno, l'unico ad avere le chiavi che aprono i cancelli di quello che era lo zuccherificio. Ed è sempre lui a fare ogni giorno il censimento dei buchi realizzati nella recinzione, a indicare materassini, giacche e zaini lasciati sul terreno. “Fino a novembre i fermi di migranti si contavano su una mano”, racconta il poliziotto, poi l'accelerazione: a dicembre si arriva a 300, quasi 400 a gennaio. “E sono solo quelli che abbiamo fermato, una minima parte sul totale”, ammette Fonteyne. 45 poliziotti ed una sola pattuglia sul terreno 24 ore su 24. “Se troviamo 15-20 migranti come facciamo a portarli tutti in commissariato? E quando li portiamo, dopo 12 ore massime di fermo per cercare di identificarli, diamo loro il foglio di via per l'espulsione, ma nessuno viene espulso”. Un'esplosione che ha una ragione semplice: oltre ad essere un'oasi per gli uccelli, Veurne lo è anche per i camionisti.
“Qui”, spiega ancora Fonteyne, “ogni giorno passano dai 1.500 ai 2.000 camion, siamo lungo l'autostrada che va in Francia, la benzina costa meno e ci sono ottime infrastrutture per i camionisti”. Qui vuol dire nella zona industriale di Veurle, che guarda caso confina con la Sucrerie, esattamente dall'altro lato del commissariato, un terzo lato è chiuso dalla ferrovia, una posizione perfetta per i trafficanti. Centinaia di tir si fermano per la notte, nelle aree di sosta o proprio lungo la recinzione dello zuccherificio. Parallelamente decine di migranti attendono l'oscurità nascosti nella Sucrerie. Alle dieci di sera i primi tentativi, 'aiutati' dalla mafia albanese o in conto proprio, alle sei della mattina la seconda ondata. La modalità è sempre la stessa, un passeur taglia il telo dei camion, se vede che c'è spazio, procede ad aprire il portellone e a far entrare i migranti.
A Veurne per ora ci si ferma solo poche ore semplicemente perché la percentuale di successo è estremamente alta. Un gioco in cui i camionisti sono vittime o complici. “C'è il divieto di parcheggio lungo la Sucrerie, ma guarda in quanti sono... La multa è di 110 euro, con i trafficanti guadagnano ben di più...”, fa due conti Fonteyne. La mafia albanese, quella che gestisce il business, chiede dai mille ai 3 mila euro a testa per l'operazione Inghilterra. “Questo è un hotspot di migranti e rifugiati, noi li chiamiamo transmigranti, perché passano di qua e non si fermano, se decidessero di fermarsi nella Sucrerie contiamo di evitarlo con azioni di polizia, ma cosa facciamo con 45 agenti?”.
Di fronte all'emergenza il governo ha deciso a metà febbraio di stanziare 80 nuovi agenti per la costa belga, ora ne arriveranno quasi altri 300. Basteranno? “È una decisione presa questo pomeriggio, aspettiamo di organizzarci e di vedere come agire sul terreno”, spiega sempre Fontayne per telefono mentre è riunito a Bruges in una riunione di crisi. “Ma è chiaro che abbiamo bisogno di maggiori capacità, la cosa importante è che il governo ha capito che bisogna occuparsi del problema aumentando gli sforzi sul terreno”. Un terreno, però, su cui non pesa solo la minaccia dello sgombero di Calais.
“Abbiamo notato 3 tipi di migranti”, spiega ancora il poliziotto: “Quelli che vengono qui portati dalla mafia, vengono anche in taxi, da Bruxelles, Gand, Anversa e dalla Germania. I trafficanti li fanno entrare nei camion che poi vanno a Dunkerque e Calais per imbarcarsi verso il Regno Unito. Vengono da tutto il mondo, anche famiglie intere, è gente che ha soldi, qualcuno anche carte di credito”. Quindi ci sono i migranti che “vengono dalla jungle di Calais e Dunkerque” e che arrivano fino a Veurne “per cercare di montare su un tir che poi tornerà ai porti di Calais e Dunkerque, non hanno soldi e ci provano in proprio”. Infine una terza categoria, sempre migranti che vengono dalle jungle francesi e che passano per Veurne per cercare fortuna a Zeebrugge, il porto di Bruges, 65 chilometri più a est, da cui ogni giorno partono sette ferry per la Gran Bretagna. “O prendono il tram che passa lungo tutta la costa belga, oppure vanno in bus o in treno via Gand, dove ci sono meno controlli”. Alì con altri tre amici iraniani di Shiraz è la prova di questo nuovo flusso che potrebbe diventare un esodo: vengono da Calais e non hanno atteso di vedere la jungle rasa al suolo. Ora attendono il bus 2B che li porti fino a Zeebrugge. “Se tutto va bene dopodomani siamo in Inghilterra”, dice con troppa speranza.
E qui si arriva alla seconda spina nel fianco del governo belga, il porto di Zeebrugge. Anche in questo caso i numeri disegnano i contorni di un fenomeno in terribile ascesa. “A ottobre abbiamo fermato 150 migranti”, snocciola un membro della polizia marittima, “a novembre 250, a dicembre 500 e a gennaio 600, il 99% sono iraniani”. La filiera che da Shiraz, regione a presenza cristiana, porta in Inghilterra ha scoperto il porto belga come trampolino di lancio per l'ultimo salto: non ci sono gli stessi controlli di Calais, dove un'area del porto è occupata dalla polizia britannica, e Dunkerque. “E Bruxelles non ha accordi di riammissione con Teheran”, fa notare un funzionario di una compagnia di Ferry, “per cui se li prendono non possono espellerli...”. Per ora il tasso di successo, dicono dalla polizia, è pari al 2 per cento, basso, estremamente basso, ma non sembra intimidire gli iraniani.
“Ci proviamo, magari non ci riusciamo oggi, ma ci proviamo”. Sono in una quindicina ammassati su una panchina di fronte alla parrocchia Stella Maris, si riparano come possono da pioggia e sferzate di vento sotto una tettoia del locale circolo delle bocce. Fernand Marechal, il prete che già condivide la Chiesa con la comunità ortodossa, a fine gennaio ha aperto le porte del suo tempio anche ai migranti, faceva troppo freddo. “Erano quindici, il giorno dopo sono venuti in 80, appena si è rialzata la temperatura ho chiuso le porte, non c'erano le condizioni sanitarie e di sicurezza per ospitarli”.
I migranti attendono l'ora di assaltare i camion o nelle aree di sosta o arrivando dalla spiaggia al porto. Due volte al giorno Didier, un portuale in pensione, porta loro da mangiare sotto gli occhi non proprio benevoli dei vicini, dormono su dei materassi piazzati intorno alla Chiesa o nelle case in costruzione. Il prete con l'aiuto di alcune Ong ha adibito una stanza di casa sua ad ambulatorio ed attende dei container con servizi e docce, intanto la polizia non rimane con le mani in mano.
“Passano e ci prendono, ci tengono chiusi anche per giorni”, racconta Amina, una ragazza di Shiraz, che parla un buon inglese. I raid sono praticamente giornalieri. “La nostra politica”, spiega il sindaco di Bruges, il socialista Renaat Landuyt, “è fare la differenza tra chi chiede l'aiuto in maniera legale, facendo domanda d'asilo, e chi sceglie la via illegale, entrando nei camion. I primi li aiutiamo, i secondi li schediamo e diamo loro il foglio di via. A chi ha bisogno di mangiare bisogna dar da mangiare, ma non bisogna aiutarli a creare un camping, bisogna fare delle scelte e noi non vogliamo una jungle”.
Per il prete, 67 anni, un passato giovanile in Palestina, 25 anni in ospedale a seguire i malati terminali, la scelta, di fronte alle previsioni meteo che prevedono di nuovo freddo e le misure dell'esecutivo che vuole blindare le frontiere, è tra due organi ben precisi: “Il cuore mi dice di riaprire la Chiesa, il cervello di tenerla chiusa”. Per il governo belga conta solo il cervello, ma quello e 290 agenti potrebbero non bastare ad evitare una jungle.