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Secondo questa lettura, dentro al ‘fenomeno’ Trump coesistono elementi di entrambi i mondi, quello della reality tv, modello culturale centrato sulla possibilità di raggiungere una celebrità quasi istantanea attraverso il voto popolare, e quello dei social media, fondato sull’interattività e la connessione costante. Trump quindi sarebbe un soggetto politico ibrido che emerge fra due epoche, quella della televisione e quella di Internet, in un interregnum in cui gli echi di un vecchio modello non si sono ancora spenti, e il linguaggio di una nuova generazione si sta ancora formando. Non è certo un caso che Donald Trump sia stato il conduttore di una fortunata serie di reality tv - The Apprentice - e al tempo stesso si sia dimostrato uno scaltro comunicatore attraverso Twitter, dove i suoi followers da gennaio crescono al ritmo di un milione ogni mese.
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Ma in che modo Trump riuscirebbe in questa connessione fra il mondo della televisione e quello della rete? Per capire meglio ci vengono in aiuto gli stessi elettori di Trump, secondo i quali la caratteristica migliore di questo uomo d’affari con uno spiccato senso dello spettacolo è la sua capacità di dire le cose come stanno. He tells it like it is, ripetono entusiasti i suoi fan. Secondo un recente studio del New York Times, in tredici stati è stata proprio questa la motivazione che ha spinto gli elettori a sostenere Trump durante le primarie. E’ interessante osservare questo dato proprio all’indomani dell’uscita di un sondaggio ABC News/Washington Post che mostra Trump in vantaggio di due punti su Hillary Clinton negli orientamenti di voto per le prossime presidenziali di novembre. Se Donald Trump viene premiato per la sua capacità di parlare in modo schietto e diretto, libero dalle briglie del politically correct, a Hillary Clinton è stata spesso criticata la sua mancanza di ‘autenticità’.
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Secondo lo studioso di reality tv Matthew Wheelock Stahl, la capacità di mettere in scena autenticità viene riconosciuta come una delle qualità principali dei concorrenti di questo genere televisivo. La dimensione intima, confessionale e spesso voyeuristica creata dal reality valorizza personalità che sanno risultare autentiche, reali e credibili, capaci di suscitare affinità emotiva o culturale negli spettatori, poco importa se in realtà i loro comportamenti sono in buona parte suggeriti dagli autori del programma. Le preferenze degli elettori di Trump sembrano indicare che le stesse qualità ritenuti vincenti per un candidato di reality show sono quelle attualmente richieste anche a un politico: non importa cosa il politico dica, l’importante è che lo dica in modo autentico. Vale la pena ricordare che al tempo dell’improvvisa ribalta guadagnata da Sarah Palin nel 2008, molti parlarono di una candidata alla vice-presidenza che sembrava uscita da un reality show, per i modi non proprio eleganti con cui si poneva ma anche per la sua capacità di coinvolgere le fasce più umili e conservatrici dell’elettorato americano.
In seguito al buffo e sgrammaticato endorsement che Sarah Palin ha fatto per Trump in gennaio, si è capito che il businessman si stava facendo campione di quel populismo di matrice televisiva che garantisce ancora a Sarah Palin un forte consenso fra gli elettori repubblicani, in particolari fra quelli vicini al movimento del Tea Party. Poco conta se poi Obama ha ammonito che la presidenza degli Stati Uniti non è un reality show. Gli elettori frustrati che hanno messo a soqquadro gli equilibri del partito repubblicano hanno trovato in Donald Trump proprio il loro concorrente preferito, quello più autentico e spregiudicato, capace di offrire il megafono più efficace per far salire dal basso la delusione verso la politica di Washington, la rabbia per le ingiuste dinamiche dell’economia globale, e la paura di guerre, terrorismi e flussi migratori incontenibili. Emozioni probabilmente autentiche, ma, come in ogni reality show, montate ad arte dallo stesso Trump, che appare dotato di un gusto per la polemica e di una capacità di indovinare veri e propri tormentoni, da Build the wall!, sul discusso progetto di costruire un muro di frontiera con il Messico, che è diventato un mantra a tutti gli eventi di Trump, a Get’em out!, urlato a gran voce dal pubblico contro gli oppositori infiltrati ai suoi comizi.
Se l’esperienza con la reality tv rappresenta l’humus culturale in cui affonda le radici il fenomeno politico di Donald Trump, i social media rappresentano le sue antenne, i canali attraverso cui il futuro candidato repubblicano alle presidenziali di novembre mantiene una presenza costante nello spazio pubblico. Se per The Apprentice era solo produttore e conduttore, per lo show quotidiano che gestisce attraverso il suo account Twitter Trump è diventato anche autore e regista: il mezzo è completamente in mano sua, è lui stesso che lo gestisce, e senza filtri comunica e interagisce con oltre otto milioni di followers. Se il linguaggio del reality era, come si dice in gergo tecnico, semi-scripted, cioè in parte scritto e in parte improvvisato, nei social l’aspetto di immediatezza e di spontaneità prende ancora di più il sopravvento. Frasi brevi e ad affetto, modulate secondo collaudate formule retoriche, linguaggio da quarta elementare, come è stato osservato, e ripetuto uso di nomignoli - Crooked Hillary, Hillary l’imbrogliona, è l’ultimo - per denigrare gli avversari. Questa è la strategia, e per ora sembra vincente. Trump pare aver colto molto bene la capacità dei social di creare fenomeni virali, con velenosi attacchi ai suoi rivali che generano migliaia di likes, attraverso retweet che diventano valanghe virtuali o con campagne hashtag che raggiungono la massa critica necessaria a fare notizia e vengono quindi riprese dai media tradizionali, garantendogli visibilità e pubblicità gratuita e sovvertendo le regole tradizionali delle campagne elettorali.
L’instabile miscela di elementi provenienti da esperienze diverse, dal reality show ai social media, sembra aver fornito a Donal Trump l’arma più efficace per farsi strada nel caotico ciclo elettorale delle primarie repubblicane. Ora si apre una fase diversa, in cui la posta in gioco è la più alta di tutte, la presidenza degli Stati Uniti. Alcuni segnali sembrano indicare la volontà di Trump di ripristinare le regole del gioco collaudate, di abolire i colpi bassi e di ricucire gli strappi con l’establishment repubblicano. Ma se nelle primarie Trump è riuscito a farsi beffe del sistema politico e di quello dei media tradizionali, agendo con una spregiudicatezza come nessun candidato aveva mai osato prima, più difficile sarà eludere i controlli e deludere le aspettative del pubblico a casa. Se gli americani lo hanno scelto per sfogare la propria rabbia e la propria delusione, non potrà così facilmente liberarsi di questo ruolo.
* Gabriele Cosentino insegna Comunicazione Politica al Vesalius College di Bruxelles.
Su Twitter: @el_gloco