
Intorno a noi, nelle vallate battute dal vento, il colpo d’occhio è straordinario: i boschi di Tekeli, alle pendici del versante kazako del Tien Shan, le “montagne celesti” innevate che separano Kazakistan e Cina. Un paradiso di biodiversità antico 40 milioni di anni: grovigli di pioppi siberiani, pioppi cinesi, betulle, larici, ribes, piante di rabarbaro, lampone e altre centinaia in via di estinzione. Gioiello semisconosciuto di un Paese immenso, il nono al mondo per estensione, grande nove volte l’Italia e quasi spopolato, con poco più di 16 milioni di abitanti.
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L'ALBERO SU CUI FU CÒLTA LA PRIMA MELA
Nell’eden dell’Asia centrale, a quattro ore di volo da Mosca più sei di auto da Almaty, la specie dominante è il “malus sieversii”, il melo selvatico che prende il nome da Johann Sievers, il botanico tedesco che per primo lo descrisse alla fine del Settecento. Scoperta sbalorditiva: fino ad allora, infatti, il melo era considerato un albero coltivato, frutto del lavoro dell’uomo. E invece la prima mela fu còlta qui milioni di anni fa, e solo in tempi relativamente recenti raggiunse l’Europa attraverso la Via della Seta.
Nelle foreste del Tien Shan i meli selvatici colonizzano fianchi scoscesi, zone pedemontane, valli glaciali e canyon fino a 2.400 metri di altitudine. Alberi di tutte le taglie, alti fino a 40 metri, con frutti di tutte le forme, colori e grandezze. Sono ancora qui i fusti di “malus sieversii”, sopravvissuti alla deforestazione sovietica.
Oggi, insieme alla musica e alla danza tradizionali, sono uno dei pilastri dell’orgoglio nazionale del Kazakistan: e pensare che negli anni Trenta, all’epoca della collettivizzazione delle terre, le specie selvatiche venivano sostituite dai frutteti industriali, “kolchoz” e “sovchoz”. Scempio proseguito dopo l’indipendenza e il collasso dell’Urss, nel 1991, con l’apertura dei mercati, l’urbanizzazione di Almaty, capitale fino al 1997 (oggi è Astana) e l’ascesa di Nursultan Nazarbayev. Presidente del Kazakistan da un quarto di secolo, il 76enne Nazarbayev è stato rieletto nel 2015 con il 97,7 per cento dei voti (e la bocciatura dell’Osce per gravi irregolarità), protagonista assoluto dei mega manifesti di propaganda che punteggiano strade e autostrade.
Il Comitato scientifico della Fondazione Benetton Studi Ricerche ha deciso di dedicare alle foreste dei meli selvatici delle Montagne celesti, simbolo universale di biodiversità, la 27esima edizione del Premio Internazionale Carlo Scarpa per il Giardino. «Globalmente si valuta che il 70 per cento del patrimonio sia andato distrutto», dice Catherine Peix, la cineasta-biologa francese che nel 2010 realizzò il documentario “Le origini della mela o la scoperta del giardino dell’Eden”, rivelando al pubblico e agli studiosi di mezzo mondo la storia dei meli selvatici.
L'AGRONOMO DJANGALIEV SFIDA STALIN
«Oggi si parla dell’origine della mela come di un’evidenza, ma non è sempre stato così. Si tratta infatti di una storia molto complessa, determinata in buona parte dal caso, da geniali intuizioni di scienziati, drammi, ingiustizie e incontri che avrebbero potuto non avvenire mai», aggiunge la filmaker, che oggi fa la spola tra Parigi e il Paese asiatico, dove ha fondato l’Associazione Alma per la protezione delle foreste del Tien Shan e la tutela della memoria di Aymak Djangaliev. È emblematica la vicenda di questo agronomo e scienziato kazako: tra il 1930 e il 2009 si è dedicato allo studio dei “malus sieversii”, lottando per la loro salvaguardia fin dall’epoca del “lysenkoismo”, dal nome dell’agronomo sovietico Trofim Lysenko, beniamino di Stalin, che negava la genetica classica e giudicava inutili le piante selvatiche.
E così l’epopea delle mele, in qualche modo, adesso può diventare la metafora della storia patria e la bandiera dell’orgoglio nazionale kazako: la varietà europea di mela “Aport”, infatti, importata dai russi nell’Ottocento, fu imposta su larga scala da Stalin spodestando la varietà selvatica studiata da Djangaliev. Così la Aport è diventata un’icona, simbolo della città di Almaty, che in lingua kazaka significa appunto “il luogo delle mele”, le hanno addirittura dedicato sculture monumentali. «Benché i frutteti sovietici abbiano gravi problemi agronomici, non si possono mettere in discussione», aggiunge Peix.
SULLE TRACCE DI TERZANI
Il rapporto con l’orso russo è decisamente conflittuale da almeno un secolo: nel 1920 il Kazakistan viene trasformato in Repubblica Socialista Sovietica Autonoma Kazaka dopo una guerra civile con oltre due milioni di morti, il russo diventa la lingua ufficiale e la lingua kazaka viene proibita. Tiziano Terzani, che nei giorni del collasso dell’Urss (agosto 1991) si trova in Siberia, dedica al Kazakistan due capitoli del suo formidabile reportage, “Buonanotte, signor Lenin” (edizioni Tea), cronaca del viaggio dalle periferie dell’impero sovietico fino a Mosca.
«Certo è che con Stalin il Kazakistan divenne la dimora forzata di varie altre popolazioni estranee a questa repubblica e che i kazaki si ritrovarono a essere una minoranza a casa loro», scrive Terzani: «Poco prima dello scoppio della seconda guerra mondiale, migliaia di polacchi e di turchi vennero deportati in Kazakistan. Lo stesso successe a tutti i tedeschi che vivevano nelle regioni del Volga. A parte i cinesi, che Mao si fece “restituire” da Stalin nel 1950, tutti gli altri “emigrati” sono ancora qui e tutti hanno ora la stessa, nuova, inquietante sensazione di non essere più benvenuti, di essere di troppo, come ospiti trattenutisi più del dovuto e la cui presenza comincia a puzzare».
VERSO L'EXPO 2017
A distanza di un quarto di secolo, russi e kazaki restano le due principali etnie del Kazakistan, che nel frattempo ha aderito all’Unione economica eurasiatica (Uee) insieme a Russia, Bielorussia, Armenia e Kirghizistan e negli ultimi anni ha conosciuto anni di forte sviluppo. Da qualche tempo l’economia ha cominciato a scricchiolare, per via del calo dei prezzi del petrolio e della recessione della Russia. Anche la moneta nazionale, il tenge, ha subito una drastica svalutazione. Certo, resta la prima nazione al mondo per la produzione di uranio e la quattordicesima per le riserve di gas. Adesso il Kazakistan guarda avanti e prepara l’Expo 2017 dedicata all’“energia del futuro”, con cui Astana si propone come città ponte fra Occidente e Asia, con la sua architettura avveniristica al centro della sterminata steppa kazaka.
La capitale è lontana, 1.200 chilometri a nordovest dell’eden in cui ci troviamo. E traccia la strada dei prossimi anni, puntando su energia e materie prime. Ma il futuro ha un cuore antico: le foreste di Tekeli, preziose per i meli selvatici, fino alla dissoluzione dell’Unione Sovietica erano disseminate di miniere di zinco, piombo, argento. A ricordarlo, lungo la via sterrata che porta sulle montagne, sopravvivono gli scheletri abbandonati delle case dei minatori. Simbolo di un Paese sospeso tra passato e futuro, in cerca di una nuova identità.