
Già ai tempi dell'Unione Sovietica si provò a sfruttare l'ingente potenziale idroelettrico della Svanezia. Ci vollero però quasi 30 anni di lavori e un immenso sforzo ingegneristico per costruire un impianto sul fiume Enguri. Oggi, percorrendo l'unica via d'accesso verso le montagne del Caucaso, il mega sbarramento si svela in tutta la sua maestosità appena affrontata una delle mille curve del tragitto. Raggiunge 271,5 metri – è il secondo più alto al mondo – e ha un invaso che contiene 1,5 miliardi di metri cubici d'acqua, ma attualmente non funziona a pieno regime e la corrispettiva centrale si trova in territorio abkhazo. Ora da queste parti si prevede di realizzare ben 35 progetti idroelettrici nell'arco dei prossimi decenni.
Il revival delle dighe si è materializzato durante il lungo mandato del presidente Micheil Saakashvili. Georgian Dream, la coalizione composta da sei forze politiche che sconfisse il partito di Saakashvili alle elezioni del 2012, è sulla stessa lunghezza d'onda. Inizialmente contrario, ora uno dei più grandi fautori della cementificazione dell'idillio montano della Svanezia è il ministro dell'Energia nonché vice-premier Kakha Kaladze, dalle nostre parti più conosciuto per le sue abilità da calciatore. L'ex difensore del Milan è impegnato in una difficile campagna elettorale – gli ultimi sondaggi danno la percentuale degli indecisi addirittura intorno al 70 per cento – e per questa ragione ha preferito declinare l'intervista che gli abbiamo richiesto, non rispondendo poi nemmeno alle domande scritte inviategli.
A Kaladze avremmo voluto chiedere qual è il destino del mega progetto di Khudoni, che sulla carta dovrebbe produrre ben 700 megawatt per 1,2 miliardi di dollari di spesa. Anche in questo caso l'idea era venuta ai sovietici, che però si fermarono quasi subito. Non è difficile capire il motivo, dando un'occhiata ai ruderi che spuntano fuori tra rocce e massi. In questa rientranza del fiume Enguri è ancora in atto una frana molto estesa, perché qui il terreno è particolarmente fragile e il rischio di dissesto idrogeologico molto elevato.
I 1.400 ettari necessari per l'impianto e l'invaso erano stati ceduti alla cifra simbolica di un dollaro da Saakhasvili alla Trans Electrica Limited, società registrata nelle British Virgin Islands, forte di legami con politici georgiani di primo piano, tra cui l'ex ministro dell'Energia David Mirtskhulava, ma apparentemente priva di un patrimonio adeguato. Alla Trans Electrica erano stati inoltre accordati dei termini di acquisto dell'energia molto favorevoli (10,5 centesimi di dollaro a chilowatt per i primi 8 anni, 26 volte in più di quanto previsto per Enguri). Le persone con cui parliamo nel vicino villaggio di Khaishi ci assicurano sono tutti contrari alla diga, perché l'intera comunità (2mila persone) dovrebbe essere reinsediata una volta terminata l'opera. Un rischio che attualmente appare remoto, visto che tutto è bloccato e non si sa se e quando saranno aperti i cantieri.
Problematiche simili, ovvero incertezza sui fondi, difficoltà di natura tecnica e comunità locali molto “combattive”, le sta incontrando anche il progetto di Nenskra, una diga che entro il 2021 dovrebbe garantire 280 megawatt alla rete nazionale. Della sua realizzazione si sta occupando la Salini-Impregilo, che nel 2015 ha vinto un appalto da 575 milioni di dollari. Il via ai lavori è stato dato lo scorso 15 agosto alla presenza dei vertici del governo georgiano e di esponenti della Salini e della K Water, la compagnia coreana che ha commissionato l'opera tramite la sua sussidiaria JSC Neskra Hydro. Nella sede della società, al centro di Tbilisi, il Chief Administrative Officer Nam Kyun Kim ci spiega che per il momento non esiste ancora un vero e proprio consorzio. Formalmente la JSC Nenskra Hydro è composta solo dalla K Water, però è in corso un processo di valutazione per capire quanto la JSC Nenskra, la quasi omonima compagnia del governo georgiano che dal 2010 lavora sul progetto, potrà entrare con una quota – probabilmente ben al di sotto del 50 per cento inizialmente previsto. Kim ci conferma che il costo totale dell'opera ammonta a un miliardo di dollari. Denaro che sarà raccolto tramite il project financing, ribadisce, trincerandosi dietro un secco “no comment” quando tentiamo di capire quale sarà l'apporto delle Istituzioni Finanziarie Internazionali. In realtà su vari siti di informazione e specializzati georgiani e internazionali è apparsa la notizia che la Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo (BERS) potrebbe staccare un assegno di 200 milioni di dollari e che anche la Banca europea per gli Investimenti e la Banca Asiatica di Sviluppo starebbero valutando di fornire un contributo. La BERS potrebbe dare una risposta già a settembre, quando la compagnia coreana avrà reso pubblico il documento integrativo dello studio sugli impatti socio-ambientali. Senza una quota importante di fondi pubblici la fattibilità economica dell'opera appare alquanto incerta.
Il dirigente della JSC Neskra Hydro non nega che nel corso di questo primo anno scarso di lavori ci sono stati dei problemi con la Salini, dichiarandosi però ottimista. “Ogni progetto di queste dimensioni ha delle difficoltà, ma sono sicuro che le risolveremo”, afferma Kim. Sulla stessa linea la Salini, la quale si dice certa, sulla scorta dell'esperienza ultra-decennale maturata in ogni angolo del Pianeta, che gli ostacoli di ogni natura saranno con il tempo superati.
Ciò detto, almeno allo stato attuale sul campo le complessità non mancano. Da agosto 2015 si va avanti con le prospezioni, ma, come ci riferiscono i tecnici della Salini con cui parliamo presso il punto dove dovrebbe sorgere lo sbarramento, “la composizione del terreno è molto particolare, per trovare la roccia dove 'appoggiare' la fondamenta dell'opera bisogna scavare a 160 metri di profondità”. E poi ben visibile dal cantiere c'è l'ennesima frana che si fa spazio tra gli alberi verdissimi che si specchiano nel Nenskra. Ma oltre alle questioni tecniche a preoccupare di più l'impresa italiana sono le proteste degli abitanti della zona. Lo scorso maggio la comunità di Chuberi, 300 famiglie distribuite su 10 villaggi, ha bloccato le strade dell'area. Per non esacerbare gli animi i lavori sono stati sospesi per una decina di giorni.
Quando li incontriamo, gli abitanti di Chuberi si stanno organizzando per una nuova protesta, che ha poi effettivamente avuto luogo il 3 luglio. Nella sala attigua a una segheria, posata su un tavolaccio di legno grezzo, c'è una foto satellitare dell'area attraversata da linee rosse e gialle. “È l'unico documento che siamo riusciti a ottenere, indica le zone impattate da diga e invaso, qui per noi cambierà tutto” si infervorano gli oltre quaranta uomini stipati nella stanza, che calano in un rispettoso silenzio solo quando arrivano la direttrice della scuola e una delle maestre.
“Se i lavori andranno avanti faremo di tutto, che sia lecito o no, per bloccarli” tuona il portavoce. Anche perché alla lettera che hanno scritto, firmata da 400 persone e inviata alle autorità competenti, non hanno ancora ricevuto risposta, mentre di vere e proprie consultazioni prima dell'inizio dei lavori non ci sarebbe stata nemmeno l’ombra. Questo punto ci è stato di fatto ribadito da Nam Kyun Kim, che ci ha parlato di incontri avvenuti negli ultimi dieci mesi e ha auspicato un ruolo più attivo in proposito da parte della Salini. Una anomalia, questa delle mancate informazioni fornite in maniera previa e completa alle popolazioni locali, che va a confliggere con le linee guida delle banche multilaterali di sviluppo e della BERS.
Alle due famiglie che dovrebbero essere reinsediate, invece, è stato proposto un risarcimento. “L'offerta è bassa. Ma noi non abbiamo bisogno del loro denaro, qui abbiamo tutto quello che ci serve e non vogliamo andare via” sottolinea Elguja Chkhetiani.
“Gli uomini della comunità hanno fatto un solenne giuramento davanti alle icone in chiesa di non far realizzare il progetto” ci fa presente la giovane insegnante Lile Chkhetiani. “Dalle nostre parti i giuramenti, una sorta di patto di sangue tra quanti lo prestano, sono una cosa seria, non si possono sciogliere in nessun modo, pena la vergogna che ricade su tutta la famiglia”. Popolo fiero e molto attaccato alle sue tradizioni, quello degli Svan. Ma anche ben disposto a usare Facebook per coinvolgere quante più persone possibile nell'opposizione all'impianto di Nenskra, così da estendere il giuramento e formare un consiglio, una sorta di comitato contro la diga.
A Chuberi, come a Khaishi e in altre comunità, si vive di agricoltura di sussistenza, commercio di noci e di legname, ma si vorrebbe puntare forte sull'eco-turismo. Una importante risorsa già ampiamente valorizzata a Mestia, il capoluogo della regione, tutelato dall'Unesco per le oltre 100 torri medievali e i suoi scorci mozzafiato sulle vette più alte del Caucaso. Nel resto della Svanezia bisogna rifare ponti e strade, parecchio malridotte, per facilitare l'accesso a veri e propri angoli di paradiso. “Se lo stato intervenisse le cose potrebbero cambiare decisamente in meglio”, ci dicono in coro.
Anche Jor Joliani, il governatore della regione, crede molto nel turismo. “Qualsiasi opera si voglia fare deve essere pensata per preservare la bellezza della regione, non per danneggiarla” ci dice nel suo ufficio presso la sede del consiglio regionale, a Mestia. “Visto che la popolazione si schiera contro il progetto, io sarò al suo fianco” chiosa Joliani.
L'ultima tappa del nostro viaggio in Svanezia è presso la comunità di Nakra, concentrata in un solo villaggio di 500 anime. Nei paraggi è prevista la costruzione di una traversa con una galleria di adduzione lunga 14 chilometri.
All'arrivo nella comunità ci fermiamo da Guram Guarmiani. Lui possiede una quarantina di ettari di foreste, che per diritto consuetudinario la sua famiglia usa da tempo immemore. Tuttavia formalizzare la proprietà di questi terreni con l'iscrizione nel registro pubblico non è così semplice. Le prospezioni per la traversa sono proprio su una parte delle terre di Guarmiani, che ora come risarcimento rischia di ottenere solo un pugno di quattrini. “Qui la maggior parte delle persone è contro il progetto, però il capo-villaggio e la sua famiglia sono a favore perché lui ha ricevuto il ruolo di “supervisore”. Non è ufficiale, ma nel villaggio tutti lo sanno”, ci spiega, tra una fetta di Kachapuri, la tipica torta al formaggio georgiana, e un sorso di vino rosso fatto in casa.
Mentre ci rechiamo verso il cantiere passiamo su un ponte sopra il Lekverari, uno dei tanti corsi d'acqua ingrossati a dismisura dallo scioglimento dei ghiacciai. “Non è nemmeno menzionato nella valutazione d'impatto ambientale.”, ci segnala Dato Chipashvili, della Ong Green Alternative, che ha una posizione molto critica sul progetto e sui vari passaggi intrapresi per realizzarlo.
Il cantiere consiste in un paio di fori da cui sgorga acqua a pressione elevatissima. Gheorghe, operaio della compagnia sub-appaltante Drillwell, ci ripete quanto detto dai tecnici della Salini. “Ho scavato ovunque nel mondo, ma un terreno così difficile non l'ho mai trovato!”.