Prima di morire, Osama Bin Laden aveva tracciato le nuove linee strategiche: meno attentati e più consenso tra la gente. I risultati stanno arrivando
«Geronimo E-KIA, enemy killed in action». È la notte tra l’1 e il 2 maggio 2011. La voce del vice ammiraglio William Harry McRaven, a capo del Joint Special Operations Command degli Stati Uniti, arriva ovattata nella Situation Room della Casa Bianca, riempita dall’attesa incerta dei più alti membri dell’amministrazione americana. Con asciutto linguaggio burocratico, McRaven annuncia la morte di Geronimo, nome in codice per Osama bin Laden. Scovato dagli uomini del Navy Seals nel suo compound di Abbottabad, cuore dell’establishment militare pachistano, il 2 maggio 2011 il nemico pubblico numero uno degli Stati Uniti è ufficialmente morto. «Giustizia è fatta», afferma con orgoglio il presidente Obama rivolgendosi al popolo statunitense. Si volta pagina, pensano in molti. L’operazione delle forze speciali chiude per sempre una storia durata fin troppo a lungo. Quella di al-Qaeda, l’organizzazione responsabile degli attentati dell’11 settembre.
A più di cinque anni di distanza da quella notte, è tempo di tirare le somme: la storia di al-Qaeda è davvero finita ad Abbottabad? A giudicare dai successi del Califfo, si direbbe di sì. Abu Bakr al-Baghdadi ha conquistato la scena, eclissando i rivali qaedisti a colpi di teste mozzate, video aberranti, conquiste militari e attentati ispirati o organizzati contro l’Europa e non solo. Sovrano di un territorio a cavallo tra Siria e Iraq, icona di un’ampia platea di aspiranti jihadisti, al-Baghdadi è il nuovo volto del male. Ma il suo protagonismo nasconde più di quanto riveli. Il suo successo potrebbe rivelarsi più effimero di quello del gruppo a cui intende sottrarre l’egemonia del Jihad. Se non vediamo al-Qaeda, infatti, è perché ha scelto di abbandonare il palcoscenico. Facendo un passo indietro. Adottando un basso profilo. Cambiando pelle e strategia.
Per capire di quale strategia si tratti, è utile guardare allo Yemen, dove è in corso un conflitto sanguinoso. Qui la filiale più pericolosa della galassia qaedista, al-Qaeda nella penisola arabica (Aqap), ha guadagnato posizioni inserendosi in una partita complicata: da una parte i “ribelli” Houthi, la minoranza sciita che nel settembre 2014 ha conquistato la capitale Sanaa, costringendo all’esilio il presidente Abd Rabbo Mansour Hadi, eletto nel 2012; dall’altra i sostenitori del presidente Hadi, appoggiati dagli Usa e da una coalizione guidata dall’Arabia Saudita che include il Qatar e gli Emirati arabi uniti, Paesi che temono l’influenza dell’Iran sugli Houthi.
A fine aprile 2016, le forze armate degli Emirati arabi uniti e l’esercito yemenita hanno riconquistato al-Mukalla. Affacciata sul mare Arabico, quinta città e terzo porto del Paese, cinquecentomila abitanti, al-Mukalla era stata conquistata il 2 aprile del 2015 dagli uomini di Aqap, che ne avevano fatto il centro nevralgico dei circa 600 chilometri di costa da loro controllati, ottenendone grandi profitti. Lo scorso aprile, le truppe degli Emirati hanno avuto gioco facile: anziché ingaggiare una guerriglia di resistenza, i qaedisti hanno abbondato la città, dopo aver trasferito le competenze amministrative a intermediari non riconducibili alla galassia jihadista. Il perché lo hanno spiegato in un comunicato rivolto agli abitanti dell’Hadramaut, la regione costiera yemenita da dove proviene, tra l’altro, la famiglia bin Laden e di cui al-Mukalla fa parte: «Ci siamo ritirati per impedire che i nemici portino la battaglia nelle vostre case e mercati, nelle vostre strade e moschee». Per proteggere la popolazione.
CONTRO IL CALIFFO
Il comunicato è un modo per capitalizzare con la propaganda una sconfitta tattica. Ma rimanda a una precisa scelta strategica. Risale alla fine degli anni Duemila, e spiega perché al-Qaeda sia tutt’altro che una minaccia disinnescata, anche se poco visibile. Come rivelano i documenti ritrovati ad Abbottabad dagli americani, prima di essere ucciso bin Laden era preoccupato. Lamentava che il nome di al-Qaeda fosse associato esclusivamente alla violenza. Che gli obiettivi politici e la matrice ideologica fossero offuscati. Invocava un cambio di passo, una «nuova fase», che rilanciasse il marchio nel mondo (cambiando perfino il nome dell’organizzazione, se necessario). Alla base, la convinzione su cui il medico egiziano Ayman al-Zawahiri, suo successore, avrebbe fondato il nuovo corso, dopo le primavere arabe: la legittimità passa per il consenso locale, non per l’imposizione e la violenza settaria. Senza il sostegno delle masse, il Jihad è inutile. Senza l’appoggio dei musulmani, il Califfato è un castello di carta: la longevità politica deriva dalla persuasione, non dalla violenza. «Non costringiamo nessuno a riconoscere la nostra autorità, non minacciamo decapitazioni, non scomunichiamo chi ci combatte». Così al-Zawahiri in uno degli ultimi audio-messaggi, reso pubblico all’inizio di maggio.
È una stoccata al Califfo. La rivendicazione di un metodo e quella di una storia pluridecennale, che per al-Zawahiri comincia a quindici anni, con la lettura dei testi rivoluzionari dell’ideologo radicale dei Fratelli musulmani Sayyd Qutb, e prosegue ancora oggi. Come dimostra l’annuncio nel settembre 2014 della nascita di una nuova branca, al-Qaeda nel sub-continente indiano (Aqis), con cui l’egiziano intende «issare la bandiera del Jihad» su un’area che dall’Afghanistan passa per il Pakistan, l’India, il Bangladesh e arriva fino in Birmania. Un’area su cui, puntando sul recente successo del marchio, anche il Califfo ha provato ad affacciarsi, ma dove l’egiziano ha il vantaggio di potersi affidare a una rete costruita pazientemente nel corso di decenni di militanza armata, propaganda e attentati.
LA CAMPAGNA D’AFRICA
Il metodo del numero uno di al-Qaeda, messo nero su bianco nel 2013 nelle “Linee generali per il Jihad”, è opposto rispetto a quello dell’impaziente Califfo. Nel luglio 2014, Abu Bakr al-Baghdadi si è affrettato a dichiarare lo Stato islamico nei territori occupati in Siria e Iraq. Da allora, ha enfatizzato i successi militari, sbandierato scomuniche e massacri, rivendicato nuove affiliazioni, strumentalizzato differenze confessionali. Quando la pressione militare della coalizione internazionale si è fatta più serrata e l’Is ha cominciato a perdere porzioni significative di territorio, il portavoce del gruppo, Abu Mohammed al-Adnani, ha cambiato postura e atteggiamento, mettendosi sulla difensiva: la perdita dei territori non equivale alla sconfitta, perché più importante è la volontà di combattere, gli ideali che guidano la lotta. Così ha dichiarato a metà maggio. Pochi giorni fa, è arrivata la notizia della sua morte: con l’uscita di scena di al-Adnani, lo Stato islamico perde uno dei suoi uomini più importanti, tra i fondatori del gruppo, braccio destro del Califfo e principale propagandista e reclutatore.
Segno di tempi burrascosi, per il Califfo. I cui sogni di gloria si scontrano con la realtà. Come avviene per l’espansione fuori dai confini del Califfato: annunciate in pompa magna nel novembre 2014, le prime province esterne dell’Is - in Algeria, Egitto, Libia, Arabia Saudita, Yemen - oggi perdono colpi, mentre le branche ufficiali di al-Qaeda guadagnano terreno. Perché hanno agito in sordina. Puntando a radicarsi nei contesti locali, a rafforzare i legami sociali, con una concezione meno esclusivista e dottrinaria del jihad, più pragmatica. Non una scelta morale, dunque, ma strategica, che riduce l’esposizione militare e allo stesso tempo rinnova e rilancia il marchio di al-Qaeda nell’affollato mercato del jihadismo contemporaneo. Da gruppo di avanguardia a movimento popolare.
La scelta dei qaedisti di ritirarsi dalla città yemenita di al-Mukalla deriva da qui. Dopo aver governato per un anno tramite consigli locali, dalle retrovie, attenti a introdurre la sharia in modo graduale, si sono fatti da parte. In attesa di riprendersi la città. Il metodo vale anche in Siria, dove Jabhat al-Nusra, il gruppo legato ad al-Qaeda, è diventato uno degli attori principali dell’opposizione armata al presidente Bashar al-Assad. Nella città nord-occidentale di Idlib, per esempio, il fronte al-Nusra si è conquistato il predominio con pragmatismo: dal 2012 al 2014 ha messo le proprie competenze militari al servizio dei gruppi locali, collaborando con forze “moderate” e nazionaliste e tenendo a lungo nascosta la matrice jihadista, per non alienarsi le simpatie locali. Come consigliava al-Zawahiri in una lettera dell’inizio del 2015, i combattenti di Jabhat al-Nusra si sono integrati nel tessuto della rivoluzione siriana. Fino a intestarsela. La strategia ha funzionato. Il radicamento e la forza militare di Jabhat al-Nusra sono tali da renderlo un gruppo molto più pericoloso dello Stato islamico, sul lungo termine.
Ancor più pericoloso dopo l’operazione di marketing con cui a fine luglio l’emiro del movimento, Abu Mohammad al-Julani, ha prima annunciato e poi pubblicizzato il distacco dalla casa-madre, al-Qaeda. L’operazione, attentamente pianificata, serve ad accreditare Jahbat al-Nusra, diventato ora Jabhat Fatah Al-Sham, come movimento autonomo, non compromesso con i terroristi stranieri. Ma si tratta solo di un’abile scelta mediatica: non c’è stato nessun vero distacco. La scelta del fronte al-Nusra è una mossa di facciata. Nominale, non sostanziale. Dietro c’è la lunga mano del numero uno di al-Qaeda, l’egiziano al-Zawahiri. Che rilancia l’opzione strategica già individuata da Osama bin Laden negli ultimi anni di vita.
Radicamento sociale, capacità militari messe al servizio delle lotte locali in vista di un più ampio fronte globale. Il percorso siriano è simile a quello seguito nel Sahel, un’area spesso lontana dai riflettori mediatici ma cruciale, come cerniera tra il Nord Africa e l’Africa sub-sahariana. Difficile dare conto di tutti gli attacchi riconducibili a gruppi che operano nell’orbita di al-Qaeda. Più facile individuarne la strategia sottesa. Si prenda per esempio l’attentato del novembre 2015 contro il Radisson Blu Hotel di Bamako, in Mali, rivendicato da al-Murabitun, il movimento jihadista guidato da Mokhtar Belmokhtar. Bestia nera dei servizi segreti, una lunga militanza nei gruppi islamisti algerini negli anni Novanta, Belmokhtar con l’attentato di Bamako è entrato a piedi pari in una delicata partita locale, fatta di resistenze al processo di pace in Mali e all’interventismo militare francese nella regione. Ma ha tracciato anche un punto fermo: nel Sahel, la campagna acquisti del Califfo non funziona. Al Murabitun, ha ribadito “il guercio” (che qualcuno dà nuovamente per morto), è alleato con al-Qaeda nel Maghreb islamico, la branca ufficiale del network qaedista. Più in generale, nel Sahel l’obiettivo di una pletora di gruppi jihadisti rimane lo stesso: unire i mujahedin dall’Atlantico al Nilo. Sotto le insegne di al-Qaeda.
Nel Sahel al-Qaeda ha successo per le stesse ragioni per cui è diventata egemone in Siria: ha costruito un’ampia rete di sostegno integrandosi nelle comunità locali; ha ampliato il proprio bacino di consenso cooptando le dispute locali e facendosene interprete; ha enfatizzato gli obiettivi condivisi di medio termine rispetto all’ideologia; ha fornito risorse e capacità militari ai gruppi ribelli locali, nominandone i leader in posizione di prestigio. Così è successo per esempio in Mali, dove la presenza qaedista è cresciuta grazie all’accordo con il gruppo tuareg Ansar al Dine e i suoi affiliati, oltre che con la creazione del gruppo a maggioranza fulani del Massina Liberation Front, che vanta militanti dal Senegal e dalla Mauritania fino alla regione del lago Chad.
Il risultato? Attacchi sempre più frequenti e sofisticati. Contro le forze di pace sotto mandato Onu di Unisma; contro gli hotel frequentati da occidentali in Mali, Burkina Faso e Costa d’Avorio; contro obiettivi francesi e corporation globali. E un raggio d’azione ormai molto ampio, dalla costa meridionale del Mediterraneo fino al Golfo di Guinea. Tanto che il 29 luglio il Consiglio di sicurezza dell’Onu è stato costretto ad aumentare il numero dei soldati della missione Unisma, autorizzandone «una presenza più attiva e proattiva».
La minaccia qaedista si fa preoccupante anche in Nigeria, dove gli uomini di al-Zawahiri sono stati abili nel soffiare sulle spaccature che l’affiliazione allo Stato islamico del marzo 2015 ha prodotto in seno al gruppo Boko Haram, divenuto “provincia dello Stato islamico in Africa occidentale”. Abu Bakr Shekau, il leader di Boko Haram, ha chiesto a lungo a bin Laden l’affiliazione formale. Lo sceicco saudita l’ha sempre negata. Il Califfo ha invece concesso a Shekau quel che cercava: un marchio globale da rivendicare. Shekau pensava di ottenerne grandi vantaggi, ma la storia è finita male. Il 2 agosto il magazine dello Stato islamico “Al Naba” ha comunicato che il “governatore” della provincia dell’Africa occidentale non è Shekau, ma Abu Musab al-Barnawi. Ne sono seguite diatribe a colpi di invettive, lettere infuocate e accuse reciproche di “deviazionismo”: il settarismo ideologico del Califfo ha provocato danni dentro Boko Haram. Un gruppo diventato più debole, e non più forte, dopo l’affiliazione allo Stato islamico: pressato dagli eserciti di Nigeria, Niger, Camerun e Chad, Boko Haram ha perso la rete di sostegno e protezione offerta un tempo da al-Qaeda nel Maghreb islamico, la branca qaedista che intende richiamare nella propria orbita i gruppi militanti dal Mali alla Nigeria.
A est, nel corno d’Africa, a operare sul terreno spesso lontano dai riflettori è al-Shabaab, che ha dimostrato un’inaspettata capacità di tenuta, tornando a bersagliare il governo somalo e obiettivi civili, a Mogadiscio e altrove, nonostante la presenza di 20.000 soldati dell’Amisom, la forza di pacificazione dell’Unione africana, le cui basi sono finite spesse sotto il tiro dei militanti somali. Nell’ultimo periodo, gli attentati si sono moltiplicati, in vista delle elezioni parlamentari e presidenziali che si terranno in Somalia tra settembre e ottobre. Mentre l’Europa annuncia la riduzione del 20 per cento del suo contributo finanziario all’Amisom, e il governo ugandese ha già fatto sapere che entro il prossimo anno ritirerà seimila soldati.
Al-Shabaab ha riconosciuto l’affiliazione ad al-Qaeda soltanto nel febbraio 2012. Dopo anni di stretta collaborazione e, non a caso, dopo la morte di bin Laden. Per lui, l’opacità era un’opzione strategica. «Se ve lo chiedono», scriveva nell’agosto 2010 ad Ahmed Godane, l’allora leader del movimento somalo, «è meglio dire che con al-Qaeda c’è soltanto una fraterna connessione islamica, niente di più». Tenendo l’affiliazione segreta, vi esporrete meno e otterrete più facilmente i finanziamenti del mondo arabo-musulmano.
Così pensava bin Laden nel suo covo di Abbottabad, lontano dal fronte di battaglia, meditando sul passato e immaginando il futuro di al-Qaeda. Veterano del Jihad, alle spalle tante sconfitte e qualche successo, prima di morire lo sceicco saudita si era convinto che l’idea fosse più importante dell’organizzazione. «Che io muoia non è importante. Perché il mio martirio creerà altri Osama bin Laden». A cinque anni dal raid di Abbottabad, è il figlio Hamza a dare ragione al padre. Il 9 luglio As Sahab, uno dei canali di comunicazione di al-Qaeda, ha diffuso un file audio di 22 minuti, intitolato “Siamo tutti Osama”. Oltre a minacciare vendetta per l’uccisione del padre, Hamza rivendica l’espansione del movimento, dopo quindici anni di guerra al terrore. Subito dopo l’11 settembre «i mujahedin erano assediati in Afghanistan, mentre oggi hanno raggiunto Siria, Palestina, Yemen, Egitto, Iraq, Somalia, il subcontinente indiano, la Libia, l’Algeria, la Tunisia, il Mali e l’Africa centrale». Gli eredi dello sceicco saudita hanno messo radici in mezzo mondo. Aspettano che tramonti la stella del Califfo al-Baghdadi. Pronti a riprendersi la scena.