Fino al 2012 pochi l’avevano sentita nominare se non gli addetti ai lavori. La sua storia è stata raccontata di recente dal Financial Times. Al centro c’è Vadim Belyaev, 50 anni, direttore generale della holding e primo azionista (con il 28,6 per cento), secondo Forbes 185° uomo più ricco di Russia con 400 milioni di dollari. Anche il suo nome fino a poco fa era sconosciuto ai più. A Mosca qualcuno lo paragona al lupo di Wall Street del film di Scorsese, un Jordan Belfort in versione russa. Oppure a Ostap Bender, mitico anti-eroe della letteratura sovietica, poligamo, artista, ladro, maestro di scacchi, uomo senza professione.
Lui, amante dei completi sartoriali all black, preferisce dirsi «finanziere per caso». La sua biografia, degna di un romanzo thriller, è un compendio della storia del capitalismo russo degli ultimi 25 anni dopo il crollo dell’Unione Sovietica, e ricalca il percorso di molti oligarchi formatisi alla scuola dei torbidi anni Novanta, l’era del capitalismo selvaggio in Russia, sotto l’egida di Boris Eltsin. Per arrivare nei duemila al GosKapitalism, il capitalismo di Stato dell’era Putin.
Vent’anni in cui Belyaev è restato a galla, sopravvivendo al crac del 1998 e poi alla crisi del 2009. E della crisi ha fatto la propria fortuna. Nato a Mosca, figlio di un famoso autore di manuali di chimica per le superiori, Stanislav Wolfson, ingegnere e programmatore di formazione. «Ho cominciato da giovane, nel 1985, facendo il rivenditore», ha raccontato Belyaev a Forbes Russia; cioè, nel gergo sovietico, smerciando sul mercato nero orologi stranieri, merce proibita nell’Urss. Così accumula il suo primo capitale. Poi arrivano le privatizzazioni, e lui si propone come intermediario: acquista per diverse aziende partecipazioni nelle imprese di Mosca, i famigerati voucher, cerca clienti e gioca in Borsa, gira nel metrò di Mosca con borse ricolme di contanti e assegni.
Nel 1994 l’incontro che gli cambia la vita, sui campi da tennis: con Boris Minz, suo futuro socio in affari e amico di Anatoly Chubais, architetto delle privatizzazioni negli anni Novanta. Sui campi da tennis nel 1990 conosce anche Boris Nemtsov, l’ex vicepremier russo poi divenuto oppositore e assassinato due anni fa a Mosca, che allora lavorava al Demanio. Due anni dopo diventano soci in un piccolo progetto edilizio nella capitale. Nel 2001 il Pil russo risale, Belyaev e Minz rilevano Otkritie, società di intermediazione fondata nel 1996, trasformandola gradualmente a colpi di fusioni e acquisizioni. Oggi il gruppo fornisce servizi finanziari a tutto tondo, dal brokeraggio al trading ai fondi hedge: comprende 10 banche, ha filiali a Londra e New York.
La sua prima specialità è assorbire e risanare banche fallite dopo la crisi del 2008, sfruttando il bottino del mega piano di salvataggio dello Stato da 800 miliardi di rubli. La seconda è fare prestiti a grandi aziende russe affamate di dollari, in un momento in cui sia gli istituti di credito statali colpiti dalle sanzioni Usa e Ue (Sberbank, Vtb e Gazprombank) sia quelli privati di proprietà di amici stretti di Putin (come la celebre Bank Rossiya citata nei Panama Papers) vedono congelato l’accesso ai capitali internazionali. Otkritie ne approfitta, uscendone vincitrice.
Tre le operazioni-chiave che ne segnano la rapidissima ascesa da piccolo pesce a colosso della finanza. Nel 2012 Belyaev acquista Nomos, una delle prime 10 banche russe, con un prestito di un miliardo di dollari da Vtb. Nel 2014, dopo l’avvio delle sanzioni, ottiene dalla Banca Centrale 127 miliardi di rubli (cui poi se ne aggiungono altri 47) per risanare la banca Trust, nota per i suoi improbabili spot con Bruce Willis. Una cifra senza precedenti e un credito di fiducia enorme da Elvira Nabiullina, correttissima capa della Banca centrale, di recente nominata miglior banchiere europeo. Impossibile, secondo i detrattori, che Belyaev ce l’abbia fatta da solo. Dietro ci sarebbero proprio i soldi di Chubais (oggi capo di Rosnano) e di Vtb. Tra schemi ai limiti della legalità e prestiti ai suoi stessi azionisti. «Guardano il bilancio, trovano il buco, e dicono alla banca centrale il doppio del reale», sostiene un insider.
A fine 2014 il colpaccio che triplica gli asset. Col prezzo del barile quasi dimezzato, e la rapida svalutazione del rublo, il colosso del petrolio Rosneft, guidato dal fedelissimo di Putin Igor Sechin, si ritrova indebitato per 18 miliardi di dollari. Allora, con un sistema complesso di accordi di riacquisto, definito in seguito «opaco» dalla stessa Nabiullina, usa Otkritie come intermediario anonimo per ottenere prestiti dalla Banca centrale: «Una delle operazioni più audaci nella breve storia del capitalismo russo, che quasi demolisce l’economia nel processo», scrive il Financial Times. Dopo la manovra, quel dicembre nero il rublo perde il 20 per cento sul dollaro in una settimana. Putin bacchetta pubblicamente Sechin. Ma l’affare «dimostrò che era possibile per la Russia aggirare le sanzioni usando banche private poco conosciute come Otkritie». Mettendo anche in evidenza quanto ambiguo sia il termine “privato” oggi in Russia.
L’anno dopo, Otkritie usa ancora i prestiti della Banca centrale per accaparrarsi il 74 per cento del debito sovrano russo. E in una notte raddoppia i suoi attivi patrimoniali. Per il 2017 è annunciata la fusione con Rosingosstrakh, la più grande compagnia di assicurazioni russa, che regalerà al nuovo gruppo un portafoglio impressionante di 50 milioni di clienti, e oltre 100mila impiegati. Nei progetti futuri c’è l’acquisto della quarta miniera di diamanti del paese.
Una crescita a rotta di collo che preoccupa gli esperti. Alcuni temono un «Vulcano Yellowstone pronto a esplodere», ricordando che nell’autunno 2015 Otkritie era sull’orlo del fallimento. Una sua affiliata, la Khanty-Mansisk Bank (KMB), fu sospettata di voler costruire una piramide finanziaria, attirando massicci depositi dai cittadini tra perdite crescenti, col metodo “aspirapolvere”. Poi Nabiullina, che dall’inizio della crisi ha revocato la licenza a ben 300 banche russe (inclusa la Fcrb che diede 9 milioni di euro al Front National di Le Pen, di cui proprio Kmb ora gestirà le richieste di compensazioni), l’ha inserita nell’elenco delle 10 banche russe «di rilevanza sistemica». Come dire, too-big-to-fail.
La traiettoria di Balyaev ha incrociato anche l’Italia, sui campi di terra rossa. Il caso più celebre è Tiscali, che nel 2015 cede al fondo di investimento russo Odef, legato a Otkritie, il 22 per cento, oggi sceso al 17 per cento. Ma già nel 1993, il finanziere in erba aiutò Italtel sbarcata a Mosca dopo la fine dell’Urss, e fondatrice e sponsor del torneo Kremlin Cup, a rivendere con profitto il 2 per cento di Rostelecom.
Il tutto con stile moderno, filiali aperte nelle sedi di Starbucks, supporto a una band di alternative rock, due film prodotti di successo. Rimanendo fedele al Cremlino ma a distanza, facendo slalom anche con l’opposizione liberale: nel febbraio 2012, quando le strade di Mosca furono invase da migliaia di manifestanti anti Putin, Belyaev nel Palazzo dei Congressi al Cremlino organizzò uno spettacolo privato del Cirque du Soleil per l’élite imprenditoriale e politica nazionale, e dal palco li invitò a scendere in piazza e appoggiare finanziariamente i dissidenti. Fiutando il vento, nel 2009 con l’arrivo della “colomba” Medvedev alla presidenza, aveva comprato il portale Openspace.ru, piattaforma del dissenso. Troppo audace: nel 2013 fu costretto a chiuderlo.
La generosità dei vertici scatena sospetti e invidie: a novembre 2015, in una filiale di Otkritie sulla Prospettiva Nevsky a San Pietroburgo, ignoti gettarono sacchi di carbone, fumogeni e viscere di animali dandosi poi alla fuga. Un avvertimento para-mafioso che ricorda il clima anni Novanta dei gangster. «Il rischio? Prima mi spaventava. Ora ci sono abituato», ha detto il “lupo” a GQ Russia, citando Funky Business e Karl Marx: un vero uomo d’affari, ha aggiunto, «non ha restrizioni morali». Le sanzioni? «L’uomo è un animale che si adatta a tutto». E una profezia: «Credo che lentamente stiamo tornando indietro agli anni Novanta, ai paradigmi di base del business, piuttosto duri e difficili». Scherzi della sorte, vittima di truffa lo è stato lui stesso nel 2011, quando tre trader della City lo frodarono per decine di milioni di dollari, registrando compravendite fittizie in pesos argentini invece che in dollari, e riciclando i proventi su conti offshore dalle Isole Vergini alla Lettonia, per poi goderseli in hotel e ristoranti a cinque stelle, comprando Ferrari, Bentley, e lussuose ville in tutta Europa. Il capo della banda aveva lavorato anche per Lehman.



