Annunciato da lontano con frastuono da capitan Fracassa, Donald Trump arriva alla Casa Bianca (il 20 gennaio) dopo la transizione più turbolenta che gli Stati Uniti ricordino. Non un normale spoils system ma una vera mutazione antropologica. Si passa dal meraviglioso galateo di Barack Obama e della first lady Michelle allo spiccio cowboy politicamente scorrettissimo con moglie iperpatinata. Eppure, d emonizzare il miliardario col parrucchino color pannocchia scatena la reazione uguale e contraria dei suoi elettori. Siamo nella fase nella luna di miele con chi lo ha scelto, quando qualunque cosa faccia o dica, giusta o sbagliata che sia, viene iscritta nella casella dei meriti. Un’opposizione seria, e alla lunga premiante, deve dunque porsi l’obiettivo di scindere parole e prassi. E, per non sembrare pregiudiziale, indirizzare la “resistenza democratica” contro i peraltro numerosi strafalcioni già commessi e quelli che si annunciano prevedibilmente copiosi. Ultimo: la nomina del genero Jared Kushner come consigliere alla Casa Bianca, un atto di spudorato nepotismo, un familismo amorale nella terra che si vanta di essere baluardo della meritocrazia. La sua conclamata xenofobia, il razzismo strisciante, l’incompetenza su alcuni dossier scottanti, gli strappi istituzionali, la stessa forma provocatoria e offensiva sono dati assodati. Tuttavia alcune sue scelte annunciate sono addirittura in continuità col predecessore. Dunque bisogna rimboccarsi le maniche, analizzare, di volta in volta in modo asettico i fatti.
Partendo, magari, dall’economia. Ciò che, in definitiva, determina i successi delle presidenze. Il protezionismo spinto di The Donald è stato variamente irriso. Senza tenere in conto che una critica alla globalizzazione, almeno come si è attuata, è ormai patrimonio diffuso a destra come a sinistra. Trump minaccia dazi sulle importazioni e le case automobilistiche si affrettano ad annunciare investimenti in America, li cancellano altrove, spiegando, come si è affrettato a fare anche Sergio Marchionne, di non essere sotto ricatto ma che sono scelte «maturate in precedenza». Fioccano promesse di milioni di posti di lavoro che nemmeno Silvio Berlusconi, solo che Oltreatlantico è più facile. Pur con una perdita di potere d’acquisto dei salari, ma anche Obama ha ridotto a percentuali irrisorie la disoccupazione. E proprio partendo dall’industria delle macchine, cui ha concesso cospicui aiuti di Stato perché si rilanciasse e non andasse a delocalizzare altrove. Lo si era bollato di socialista, aveva semplicemente constatato che, causa dumping di diritti, la competizione con la Cina era impossibile senza intervento pubblico. E non voleva trovarsi tra un paio di generazioni, quando auspicabilmente ci saranno le condizioni per una gara fair con Pechino, trovarsi col Paese senza fabbriche. Quella stessa Cina che, schiaffeggiata da Trump subito dopo l’elezione, ora si presenta sull’uscio di Washington, portando, per mano di Jack Ma di Alibaba, il miglior amico di Xi Jinping, segretario del partito comunista, l’offerta di collaborazione nell’e-commerce.
L’altra faccia del protezionismo è l’isolazionismo in politica estera. Al futuro Commander in Chief non piacciono i soldati americani in giro per il mondo. Costano e, dal suo punto di vista, sono inutili. Specie in Medioriente, ora che gli Usa hanno l’autosufficienza energetica. Un ritiro repentino di ciò che rimane nel Golfo dovrebbe essere la conseguenza dell’assunto. E la differenza con Obama sta semmai nella rapidità. Il primo presidente nero, correggendo l’impostazione di Bush figlio, programmò l’uscita dall’Iraq salvo essere risucchiato parzialmente nella mischia dall’esito nefasto delle primavere arabe e dalla comparsa sulla scena dello Stato islamico. La storia ha più fantasia della capacità di previsione di noi umani e non è detto che qualche evento ora impronosticabile muti l’agenda di Trump suo malgrado. Già ora, tuttavia, si possono individuare due linee in contraddizione almeno nelle parole: l’annunciato riavvicinamento a Israele e la sconfessione dell’accordo sul nucleare con l’Iran (che però potrebbe essere bocciato dal Congresso) mal si conciliano con l’abbandono dell’area.
E qui entra in campo Vladimir Putin, il vero cambio di passo rispetto al predecessore. Nei calcoli del miliardario-presidente è l’alleanza col Cremlino la chiave per il disimpegno o al minimo la condivisione di responsabilità. Sarebbe auspicabile, visto che Occidente e Russia hanno da vincere una battaglia contro un nemico comune, il terrorismo. In passato ci si era sperticati in elogi verso quei leader che erano stati capaci di dialogo tra superpotenze per scongiurare contrapposizioni foriere di possibili sviluppi anche armati.
Tenere aperta la porta del confronto dovrebbe essere salutato come un atto di realismo. Obama si ostina invece, quasi fuori tempo massimo, a chiuderla, con la cacciata dei diplomatici russi e le reiterate accuse di ingerenza nelle elezioni del novembre scorso. Senza peraltro che le varie intelligence Usa abbiano prodotto prove sul coinvolgimento dello zar. Che i russi abbiano brindato all’elezione di Trump e per lui abbiano fatto il tifo sembra fisiologico. Lo ha fatto anche Bibi Netanyahu e non ci sono stati gli stessi strali contro Israele. E quanto a ingerenze, gli Stati Uniti sono gli ultimi a poter impartire lezioni come dimostra la stessa Italia non solo nel passato se si pensa all’endorsement di Obama per il Sì al referendum sulla riforma costituzionale e l’appoggio al governo Renzi. O, guardando un po’ più indietro, allo spionaggio a tappeto della Nsa nei confronti di nemici e amici, governo Berlusconi compreso.
Trump nel dossier Russia è avviato verso una soluzione netta di continuità. Oggettivamente con qualche buona ragione strategica in un mondo multipolare dove sarebbe folle non immaginare un ruolo per Mosca. A patto, naturalmente, di non sposare Putin anche nella versione muscolare di repressore delle opposizioni, dei diritti e fautore di un neoimperislismo di stampo sovietico. Quello sì un matrimonio che non s’ha da fare.