Politici inetti, egoismi economici, richiami alla storia. Come nel ’91 nei balcani il desiderio secessionista alimenta le tensioni. Per fortuna però, rispetto a quell'esperienza, ci sono anche delle differenze

Gli umani preferiscono sbagliare da soli. Per questo la storia non insegna nulla. Eppure sarebbe, proverbialmente, “maestra di vita”, a saperla assimilare. Le similitudini non sono mai esatte, ma tra la ventilata secessione catalana di oggi e quella delle Repubbliche jugoslave degli anni 90, esiste una serie impressionante di analogie e qualche (per fortuna rilevante) differenza.

La benzina nel serbatoio separatista l’aveva messa, more solito, l’economia. A Lubiana e Zagabria si diceva: siamo stanchi di versare le tasse a Belgrado e mantenere le aree povere del sud della Federazione. A Barcellona hanno maturato lo stesso astio nei confronti di Madrid, convinti che i catalani da soli raggiungerebbero un’opulenza maggiore. Le trattative per tenere unito lo Stato di Tito avevano contemplato, per gradi, una gamma di possibilità che escludessero quella più estrema. Autonomia più ampia, cessione di alcuni poteri, confederazione. La resistenza delle autorità centrali, cioè della Lega dei comunisti di Slobodan Milosevic, riottosa ad accettare qualunque mediazione, aveva fatto abortire ogni tentativo riformista di una Costituzione peraltro ambigua che prevedeva in un articolo la facoltà di secessione delle Repubbliche e in un altro lo negava. Appellandosi a questa o quella via legale entrambi i contendenti potevano invocare un buon diritto. Salvo che (e questa sarebbe la prima lezione da trarre) le leggi poco possono quando c’è una volontà popolare che si fa beffe dei codici. È allora che tocca alla politica esercitare l’arte che le sarebbe propria, la mediazione.

Effetto Catalogna
La crisi catalana, una trappola per l’Europa
9/10/2017
Il premier spagnolo Mariano Rajoy ha ragione, si sente ripetere. Ed è burocraticamente vero ciò che sostanzialmente è un errore. Se alcuni milioni di cittadini reclamano uno scenario diverso sarebbe il caso di discuterne. E non, come ha fatto lui, chiudere ogni spiraglio, anzi, portare indietro le lancette della storia e cassare persino quella larga autonomia che i catalani avevano negoziato col governo precedente.

Il muro contro muro produce dapprima quegli estremismi verbali che impiccano chi li pronuncia alle proprie parole. I politici sono adusi a mentire e spesso non rispettano i programmi di governo. Ma non possono sottrarsi quando hanno infiammato le piazze chiedendo di essere seguiti perché promettono un futuro radioso. È la dinamica del rapporto con la folla che li inchioda. Successe allo sloveno Kucan e al croato Tudjman nel 1991, accade ora al catalano Puigdemont, un ex moderato diventato oltranzista barricadero.

Siccome tanta foga nel cambiare radicalmente un assetto istituzionale necessita di qualche pezza giustificativa della storia, ecco che si fa appello a una vagheggiata età dell’oro in cui si era liberi, ricchi e indipendenti. E se non esiste bisogna inventarsela per darla in pasto alle masse. Uno Stato sloveno o croato non era mai esistito nella pienezza del termine - e i croati non potevano vantare l’infausta esperienza del loro Stato (1941-1945), satellite della Germania nazista. La Catalogna, prima di questi tre secoli di comune destino spagnolo, faceva parte del Regno d’Aragona. Fu Repubblica indipendente solo negli Anni Venti dello scorso secolo, esperienza presto stroncata dal dittatore Miguel Primo de Rivera.

Dunque tocca costruirsi una narrazione alternativa, far emergere le peculiarità. Per sloveni e croati fu semplice trovare le differenze religiose (cattolici contro gli ortodossi serbi), etniche (tutti slavi del sud ma di ceppi diversi), linguistiche, pur se tra il croato e il serbo, al netto della scrittura in caratteri diversi, le differenze sono minime. I catalani, cancellando gli ultimi 300 anni, obiettano a Madrid una lingua propria, vietata durante la dittatura di Franco. Nei Balcani si dice: in ogni taverna quando si parla di lingua si mette mano alla pistola. In Catalogna, a ben vedere, nell’epoca recente i primi sintomi di insofferenza verso il castigliano si ebbero durante le Olimpiadi del 1992 (quando in ex Jugoslavia si sparava): il Cio decise che, per la prima volta nei Giochi moderni, le lingue ufficiali fossero quattro: le tradizionali francese e inglese, la lingua del Paese (il castigliano) e l’aggiunta del catalano. L’allora presidente dello sport olimpico, Juan Antonio Samaranch, era di Barcellona.

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Ecco perché le piccole patrie possono distruggere lo Stato
9/10/2017
Il corollario successivo alle diversità sono le “angherie” subite dai vicini. E, allora come oggi, le guerre civili si prestano perfettamente alla bisogna. I conflitti nella ex Jugoslavia furono preceduti da un trionfo sui media di termini che sembravano fuori corso: ustascia, dicevano i serbi dei croati; cetnici, rispondevano i croati, alludendo alle sanguinarie bande armate filo-monarchiche di Draza Mihailovic. E in televisione erano litanie contro i cattivi nemici massacratori del proprio popolo durante la faida interetnica durante la Seconda Guerra mondiale.

Non deve stupire allora che i riferimenti alla guerra civile spagnola (1936-1939) rifacciano capolino oggi. Non esiste analisi condivisa sui fatti di allora. Il franchismo aveva sparso un anestetico sulla memoria e il successivo periodo di transizione non l’aveva rievocata per paura di resuscitare fantasmi. Ma la memoria, anche se a lungo negata, ha le sue radici lunghe che riaffiorano quando certe rivendicazioni devono trovare una validazione e un ancoraggio nel passato. Non sorprende che, negli ultimi periodi sia sorta una copiosa pubblicistica su quegli anni tragici: annunciava una nuova resa dei conti tra Barcellona e Madrid.

Il salto finale nel burrone è la diatriba su chi debba detenere l’uso legittimo della forza, caratteristica fondante di uno Stato. All’epoca la Garda croata fu l’embrione dell’esercito che si contrappose a quello “unitario”, la Jna. È difficile non scorgere nei 17 mila “Mossos d’Esquadra” catalani, ben addestrati ed equipaggiati, una possibile armata in formazione se le cose dovessero volgere al peggio, in contrapposizione alla “guardia civil” alle dirette dipendenze di Madrid.

Non manca infine l’elemento popolano. Il calcio fu usato nei Balcani dai vari leader come strumento di propaganda e Zvonimir Boban fu testimonial della campagna elettorale di Tudjman. Il Barcellona si vanta di essere “mes que un club”, più di un club. Infatti incarna la catalanità, ne è il prodotto di maggior successo da esportazione. E si è molto schierato in una contesa diversa da quella sui prati.

Ventisei anni fa, andò a finire come sappiamo. Oggi il futuro è tutto da scrivere. Sloveni e croati erano (quasi) tutti per la secessione. In Catalogna la spaccatura è più o meno a metà. E questo, se ben giocato, potrebbe essere un deterrente alla guerra.

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