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«L’Unione europea non ha scelta», parla solenne al telefono da New York Sheri Berman, la cinquantenne guru della politica europea della Columbia University di New York: «Deve starne fuori. Non è solo la scelta giusta, è la sua unica scelta. Questa è una situazione in cui ha solo da perdere se interviene». Il ruolo dell’Unione non può che essere quello per cui è nata: disegnare i confini pacifici entro cui avvengono le negoziazioni e i confronti tra i numerosi attori. «Se vivessimo all’inizio del secolo scorso sarebbero già partiti gli spari. Come avvenne in Cecoslovacchia. O anche solo qualche decina di anni fa. Ma ormai, grazie all’esistenza dell’Unione europea una guerra civile è impensabile».
La Catalogna secondo la Costituzione spagnola approvata per referendum nel 1978 non può secedere dalla monarchia spagnola e se lo facesse unilateralmente, a stare ai trattati europei siglati dai 28 governi nazionali, non potrebbe chiedere di fare parte dell’Unione. Ma d’altra parte anche se il referendum fosse legale occorrerebbe l’unanimità dei paesi Ue per entrare nel Club europeo e la Spagna voterebbe sicuramente contro, spalleggiata dagli altri stati che hanno problemi simili. Sono gli stati nazionali che compongono l’Unione europea e nessuno ha interesse a una sua ulteriore disintegrazione che, nella migliore delle ipotesi, porterebbe ad una gestione ancora più burocratica e difficile dell’attuale.
D’altronde l’incubo della Brexit è come un’ombra costante, onnipresente tra le stanze di cartongesso degli uffici e quelle mentali degli europolitici. «Brexit e Catalogna hanno molto in comune», sottolinea al telefono da Londra l’autorevole storico della Spagna Paul Preston, direttore dell’Osservatorio sulla Catalogna presso la London School of Economics: «In entrambi i casi la gente è stata condizionata dalle bugie dei politici».
Quali? «Rajoy e i Brexittieri. Questi ultimi hanno sparato una quantità incalcolabile di menzogne, soffiando sul pregiudizio xenofobo. Il primo ministro spagnolo a guida di un governo di minoranza invece non ha voluto risolvere la lunga questione catalana, come avrebbe dovuto, quanto invece non perdere, e possibilmente incrementare, i voti della maggioranza degli spagnoli, ben contrari, come è naturale, alla secessione di una regione, la più ricca e storicamente ribelle». Risultato? Un referendum voluto a tutti i costi e ottenuto a metà, tra scene di guerra urbana, proiettili e feriti.
Memorie tornate in superficie della violenza franchista particolarmente crudele contro i catalani, rei di voler affermare la propria identità. «Non riesco a immaginare una gestione peggiore della crisi di quella di Rajoy», dice Berman che concorda con Preston: «Madrid avrebbe potuto permettere il referendum insistendo sul fatto che non sarebbe stato legale né vincolante ma, a seconda del risultato, magari il punto di partenza di una futura revisione costituzionale oppure il presupposto per un compromesso condiviso». Perché se è vero che la Costituzione è legge è anche vero «che non è scolpita nella pietra», specifica da Barcellona, tra una visita ai seggi e l’altra, Stephen Ansalabehere, cattedratico di governance ad Harvard: «Quella della Confederazione americana è stata cambiata proprio perché non funzionava più. E Madrid avrebbe dovuto seguire l’esempio della Scozia: dopo avere esasperato l’antagonismo, ora si trova in una situazione da cui è difficile uscire».
Ma gli spagnoli non ci stanno. «La situazione della Catalogna è più simile a quella dell’Irlanda del Nord che a quella della Scozia», tiene a sottolineare Ignacio Molina, docente di Politica e Relazioni internazionali presso l’Università autonoma di Madrid, ricercatore presso il Real Instituto Elcano e autore di decine di libri sulla politica dell’Unione europea e sulla Spagna: «Qui non si tratta di una regione dove il 90 o perfino il 70 per cento della popolazione si sente catalano e vuole lasciare la Spagna. Sarebbe triste ma inevitabile. La Catalogna è una regione rotta. Divisa a metà come era l’Irlanda del Nord. Chi vota per “Ciudadanos” o il PP è considerato nemico della Catalogna dagli indipendentisti. Adesso, nel XXIesimo secolo, questo è il linguaggio. Ovvio che Madrid non possa accettare di essere ricattata da un gruppo di estremisti».
Su un punto c’è accordo tra gli analisti. Se il partito popolare di Rajoy non avesse voluto indebolire i socialisti dell’ex primo ministro Zapatero nel “lontano” 2006 impugnando davanti alla Corte costituzionale la revisione del nuovo statuto di autonomia catalana approvato dal parlamento di Barcellona e poi anche dal parlamento spagnolo che avrebbe garantito maggiore autonomia a Barcellona, probabilmente gli animi non si sarebbero inaspriti. Ma tant’è.
Al potere il governo di centro destra, la Corte a maggioranza di destra nel 2010 l’ha respinto nel bel mezzo della profonda crisi economica che ha messo a dura prova la solidarietà nazionale. E la richiesta di maggiore autonomia (e della definizione di Catalogna come nazione) è diventata rapidamente quella per l’indipendenza. Colorita di maggiore emotività e passione, sottolinea Preston. Perché una cosa è combattere per «non impoverirsi o per non essere lasciati indietro a livello infrastrutturale pur essendo la regione più ricca di Spagna» e un’altra è battersi per il diritto alla propria identità. Per il recupero di quel senso di popolo che fu violentemente negato nel 1939, quando divenne reato anche solo parlare catalano. E da allora mai davvero recuperato.