Nel voto del 16 aprile ?è in gioco il futuro del Paese e la definitiva legittimazione del suo leader come sultano. ?Ma il risultato delle urne avrà effetti anche sull’Europa, sulla gestione dei migranti e sulla lotta all’Isis

Una quota piccola ma non irrilevante del futuro degli italiani sarà decisa dagli elettori turchi che si recheranno alle urne il 16 aprile per il referendum costituzionale voluto da Recep Tayyip Erdogan, il quale vuole legittimare con la consultazione il suo diritto, già esercitato nei fatti, a governare come un sultano.

Nel mondo globalizzato tutto si tiene e non è indifferente, per i Paesi vicini, una Turchia che funziona con le regole dell’equilibrio dei poteri proprie di una democrazia compiuta o con quelle di una “democratura” dell’uomo solo al comando, sciolto da ogni vincolo e liberato da ogni controllo.

I sondaggi danno i sì e i no alla riforma sul filo del 50 per cento, nonostante il partito del presidente abbia speso ogni sua risorsa lecita e illecita per orientare le decisioni. Occupazione manu militari dei media, propaganda a tappeto nelle città e negli sperduti villaggi dell’Anatolia, oltre che nei Paesi europei dove risiedono i connazionali della diaspora (il 5 per cento degli aventi diritto al voto, probabilmente ago della bilancia), arresto dei leader dell’opposizione con accuse pretestuose. E in più un film agiografico sul capo, “Reis”, fatto artatamente uscire nelle sale a metà marzo, che si sta però rivelando un flop al botteghino, solo 170 mila spettatori secondo più recenti rilevazioni (e 1.771 nell’ultima settimana), per un incasso di mezzo milione di euro quando è costato 8 milioni. Un flop che suona come un piccolo segno di ribellione almeno tra le classi colte cittadine, quelle più aduse a frequentare i cinema.

Se dunque regna ancora l’incertezza lo si deve alla persistenza, nonostante tutto, di una società civile che teme la definitiva caduta in un regime di tipo putinista.

Se dovesse vincere Erdogan, oggi 63 anni, potrebbe fregiarsi della carica di “presidente dello Stato” (nome di nuovo conio) in teoria fino al 2034 quando ne avrebbe 81. Nelle sue mani la concentrazione massima di prerogative mai accettata da nessuna Costituzione democratica di stampo liberale. Potrebbe sciogliere il parlamento a suo piacimento, nominare personalmente ministri, giudici e rettori universitari, emanare leggi a colpi di decreti senza nemmeno l’ostacolo di un primo ministro (figura abolita). Mentre un ipotetico impeachment, pur previsto, risulterebbe nel concreto impossibile da ottenere.

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Sarebbe insomma il coronamento di un sogno neo-ottomano, a quasi un secolo dalla fine di quell’impero mitico, la pratica cancellazione della Turchia moderna, lo Stato laico voluto da Kemal Ataturk, picconato a poco a poco negli ormai 15 anni al potere di Erdogan e del suo partito Akp di ispirazione religiosa.

Quanto quella “ispirazione” sia diventata invasiva e abbia lentamente orientato la società verso una riscoperta dell’Islam e una prassi conseguente lo si può misurare dal numero di donne velate, dalle hostess della compagnia di bandiera che hanno abbandonato le gonne per i costumi tradizionali, dai locali che non servono quasi più bevande alcoliche, persino dal progetto di trasformare la ex basilica di Santa Sofia, a Istanbul, oggi monumento, in una moschea. O dall’idea di costruire su una delle poche colline verdi rimaste nella stessa Istanbul quella che sarà la più grande moschea del Medio Oriente.

L’Akp è del resto una filiazione del Fratelli musulmani egiziani. E se furono cauti i suoi primi passi quando approdò al governo all’inizio di questo millennio, lo si deve al tentativo di farsi accettare nel consesso internazionale, in una fase in cui lo stesso Erdogan sembrava sinceramente interessato all’ingresso in Europa e andava a braccetto con Silvio Berlusconi. Fu bloccato sulla soglia, in un processo di adesione che non è mai stato dichiarato fallito ma si è arenato, dai veti di Nicolas Sarkozy e Angela Merkel, che dicevano di non poter accettare un gruppo nazionale islamico maggioritario al Parlamento di Bruxelles.

L’euforia europeista, diffusa nella popolazione si è affievolita per i rifiuti di Francia e Germania, ma ancor più quando è salita, nel firmamento dei fedelissimi di Erdogan, la stella di Ahmet Davutoglu, prima semplice professore universitario e consigliere, poi ministro degli Esteri, infine anche premier. Un suo libro, intitolato “Profondità strategica” è diventato il testo di riferimento e ha segnato il cammino della svolta neo-ottomana.

In un Paese dove oggettivamente l’economia cresceva grazie ad alcune felici riforme, Istanbul doveva diventare di nuovo il faro per tutta la regione, dopo aver sedato contenziosi mai risolti grazie alla politica definita “nessun problema coi vicini”. Da qui i tentativi di accordi bilaterali con l’Armenia, sempre complicati causa il primo genocidio del secolo scorso che, si disse, fu ispirazione per quello hitleriano. La volontà di colonizzare la più arretrata Siria con i prodotti turchi. Persino di farsi garante del ritorno dell’Iran nel consesso internazionale grazie alla mediazione sull’arricchimento dell’uranio.

Invece che ponte per l’Eurasia, Ankara optava per una scelta di campo precisa, essere il capofila di un Islam che ritrovava un orgoglio di rinascita.

Il nome di Erdogan, invocato in molte piazze della primavera araba (soprattutto nella piazza Tahrir egiziana), ha definitivamente convinto il leader a trasformarsi in sultano. Ma i cambi d’abito non sempre riescono, le tentazioni egemoniche si scontrano con gli appetiti altrui. E la politica “nessun problema coi vicini” si è trasformata in “nessuno vicino senza problemi”, causa la disinvoltura nel ripudiare alleanze a seconda delle convenienze.

Erdogan si era illuso di usare lo Stato islamico del sedicente califfo Abu Bakr al Baghdadi in funzione anti-Assad, volendo rovesciare il regime di Damasco (alauita, branca dello sciismo) e proporsi come campione dei sunniti. Quando dopo un giro di giostra ha dovuto stringere un patto con Putin e riaccreditare Assad, si è trovato gli attentati in patria. E sarà forse ora costretto a ripudiare di nuovo il dittatore siriano, se sarà confermato che questi è il responsabile dell’attacco con armi chimiche che il 4 aprile scorso ha provocato decine di morti, soprattutto bambini, e se quindi Assad tornasse a essere un paria della comunità internazionale.

Intanto Erdogan vede crescere ai propri confini il peso dei curdi siriani e iracheni che potrebbero, domani, vagheggiare un proprio Stato comprendente i fratelli separati turchi con annesso il territorio dove sono maggioranza nell’Est dell’Anatolia. E il rischio, per il rais di Ankara, è quello di vedersi amputato il proprio territorio, altro che il miraggio del sultanato.

La politica estera disastrosa gli ha consigliato di rafforzare l’autocrazia nella ridotta dei suoi confini. Il consenso derivato dal sempre discreto andamento dell’economia lo ha convinto a sbarazzarsi dei nemici interni per arrivare all’esercizio di un potere assoluto.

Il controverso e mai chiarito tentato golpe del 15 luglio 2016 gli ha fornito il pretesto per la resa dei conti definitiva con quanto restava del kemalismo laico nell’esercito. E per una sorta di “pulizia etnica” nei ranghi istituzionali dei seguaci di Fethullah Gulen, l’ex amico e miliardario imam fautore della sua ascesa, autoesiliatosi negli Stati Uniti, diventato principale oppositore. Le cifre aggiornate, e rese note lunedì 3 aprile dal ministro dell’Intero Suleyman Soylu, danno l’idea di una purga di stampo staliniano: 47.155 arrestati di cui 10.732 poliziotti, 7.634 militari (168 i generali), 2.575 magistrati, 26.177 civili (moltissimi insegnanti) e 208 amministratori locali. Altri 863 sospetti sono ancora ricercati. Il totale delle persone poste in stato di fermo ammonta a 113.260. E inoltre gli oppositori filocurdi in carcere, a partire dal loro leader Selahattin Demirtas, assieme a circa 150 giornalisti (record del mondo) senza altra colpa se non quella di svolgere il loro lavoro.

È questa la fotografia della Turchia davanti al suo appuntamento più importante della storia recente. Se Erdogan dovesse avere la validazione popolare delle sue mire assolutiste, allora non avrebbe più alcun freno la sua postura autoritaria peraltro già esibita in diverse circostanze. L’Europa avrebbe alle sue porte un Paese ostile.

Garante sinora del blocco di tre milioni di profughi in cambio di denaro, però in grado di usare quella massa di disperati come una perenne minaccia. In conflitto aperto con la Germania e l’Olanda per il divieto esplicito ai suoi ministri di fare propaganda fuori casa in occasione del referendum. E con un padre-padrone che incita i connazionali della diaspora in Europa a fare più figli per alterare a proprio favore la componente demografica: un espediente di mussoliniana memoria.

E inoltre: un autocrate che ha stretto un patto col suo omologo russo Vladimir Putin in chiave anti-europea e anti-americana benché faccia parte della Nato, seppur sempre più riottosamente. Che frena, con la sua influenza, l’offensiva su Raqqa, “capitale” siriana dello Stato islamico, nel timore che possano derivarne onori alle truppe dei curdi siriani attivamente impegnati nell’opera di riconquista. Il tutto al servizio della personale futuribile gloria, contro una fetta consistente del suo stesso popolo che reclama libertà e diritti. Quei diritti che in Europa sono moneta corrente.

C’è una evidente divaricazione di interessi tra noi e l’ amico di un tempo rimasto solo potenziale. Si è allargato il Bosforo per una deriva dei Continenti che non è geologica ma politica.