Al netto dei brogli, i risultati del referendum indicano l'inizio della fine. Ma per chi come Erdogan è abituato a sopprimere brutalmente i diritti civili sanciti dalla Costituzione, alla fine un risultato vale l'altro
Il re è morto , viva il re, anzi viva il sultano. Nonostante la repubblica parlamentare turca sia morta e quella presidenziale sia nata sotto una stella del tutto appannata, per usare un eufemismo, Recep Tayyip Erdogan non ha dubbi nel ritenersi il vincitore del referendum di domenica. E non c'è da stupirsi dato che Tayyip si considera da sempre al di sopra della legge e aspira a guidare il popolo non solo come il Capo dello Stato turco ma, soprattutto, come l'autentico erede del profeta Maometto, auspicando di riuscire a trasformare definitivamente la Turchia in una dittatura islamica in grado di superare in ortodossia e metodi quella saudita e iraniana, pur essendo quella iraniana di confessione sciita.
Ora che è evidente persino all'attendista Unione Europea che il risultato del referendum è frutto di almeno un 5 per cento dei brogli, ovvero che il 51 per cento ottenuto dal fronte del "Si" alla riforma costituzionale sotto il profilo matematico è la prova che il referendum è stato vinto dai turchi che non intendono consegnare definitivamente al Sultano le chiavi del paese - comprese molte figure di spicco del suo partito della giustizia e Sviluppo alla guida del governo da 15 anni - è troppo tardi per correre ai ripari.
Per chi come Erdogan è abituato da 15 anni a sopprimere brutalmente nel silenzio generale i diritti civili sanciti dalla Costituzione, come la libertà di stampa e di critica, alla fine un risultato vale l'altro. E' lui che comanda e comanderà ancora grazie al guinzaglio messo al collo delle istituzioni e allo svuotamento dei contrappesi previsti dalle democrazie reali e non di facciata, come la Turchia.
Per questa ragione la Corte Elettorale non ha preso in considerazione i video realizzati dagli osservatori indipendenti in cui si vedono i presidenti dei seggi intenti a mettere il timbro sulla parte della scheda con la scritta "Sì". Se dunque formalmente il risultato non subirà cambiamenti, una lunga ombra è comunque scesa sulla già traballante e da sempre "ibrida" democrazia turca.
Verosimilmente ciò che è accaduto dovrebbe indicare l'inizio della fine per Erdogan, ma quando vige un regime autocratico ciò non si traduce matematicamente in realtà. Anzi, a questo punto è prevedibile, nonostante le affermazioni di numerosi analisti turchi e internazionali, che il pugno di ferro di Erdogan diventi d'acciaio. Il primo segnale è arrivato proprio questa mattina quando il governo ha dichiarato che lo stato di emergenza verrà esteso per la terza volta. A ulteriore dimostrazione, sono seguiti i primi arresti.
Che bisogno ci sarebbe stato se Erdogan fosse davvero convinto di aver vinto il referendum, la sua massima aspirazione che gli consentirà di rimanere al potere almeno fino al 2023, l'anno del centenario della nascita della Turchia moderna, potendosi così spacciare come il nuovo Ataturk in salsa islamica.
A Erdogan non interessa ciò che pensa di lui il resto del mondo perché sa che la Turchia in questo frangente storico è impossibile da isolare completamente essendo il bastione orientale della NATO, nonché un attore ontologicamente ineludibile per i negoziati sulla Siria, non fosse altro che per la propria cruciale posizione geografica. Certo un presidente indebolito internamente non può risultare rafforzato in ambito internazionale, ma Il Sultano ha ancora alcune frecce avvelenate al proprio arco, a partire dal patto anti immigrati stipulato con l'Europa, leggasi Germania. La seconda è costituita dagli immigrati turchi massivamente presenti nel cuore dell'Europa continentale che hanno infatti votato in larga parte per lui, dimostrando di non sentirsi cittadini europei ma di essere interessati solo a usare i diritti concessi dalla UE ai propri abitanti .
L'ego ipertrofico di Erdogan reagirà a questa sconfitta come di fronte a un affronto personale perché ha costruito la propria carriera nel solco della rivincita contro l'elite turca laica, colta, europeista e ricca per eredità, concentrata nelle grandi città, lui che proviene da una famiglia di lavoratori dell'Anatolia provinciale e islamica.
Come mostra l'etologia, un animale ferito reagisce in modo irrazionale e l'antropologia prova che chi si sente ingiustamente attaccato reagisce senza badare alle regole della convivenza civile pur affermando il contrario. Il governo ha dichiarato che lo stato di emergenza è stato esteso ancora una volta a causa delle bombe del Pkk curdo e dei kamikaze dell'Isis, che i servizi segreti turchi hanno in parte sostenuto fornendogli armi e assicurandogli la logistica sul confine con la Siria.
Ma, in realtà lo stato di emergenza gli serve per bandire le libertà di manifestazione e di stampa e oltre.
Erdogan ha metà del paese contro assieme a buona parte del mondo democratico, ma non lo considera un problema perché sono quindici anni che fa ciò che vuole a livello politico sostenuto dalla finanza e dall'industria nazionale e internazionale, quest'ultima in particolare ha approfittato delle forti agevolazioni concesse in cambio di investimenti sul suolo turco. L'establishment internazionale ha rimosso strumentalmente e, con sguardo miope, l'avversione del Sultano per la democrazia, da lui bollata pubblicamente fin dal suo primo mandato da premier "come un taxi. Lo prendi quando ti serve, poi arrivato alla meta scendi". Il Sultano è morto, viva il Sultano, che è però sempre lo stesso perché le leggi della scienza per lui non valgono.