La strage di Manchester ha colpito un Paese ?già spaccato su tutto: politica, economia e perfino il proprio futuro di nazione. E mentre May si prepara a vincere le elezioni nell’indifferenza dei più, Scozia e Irlanda del nord sono pronte a divorziare da Londra

Illustrazione di Duluoz
Premesso che gli attentati terroristici - oggi Manchester, nel 2005 la metropolitana di Londra e negli anni Settanta l’Ira - non hanno mai avuto significativi riflessi elettorali, e tantomeno sui comportamenti quotidiani d’Oltremanica, non escludo che se in Gran Bretagna si votasse domani, invece che giovedì 8 giugno, e insieme ai due maggiori contendenti alla premiership (l’attuale primo ministro conservatore Theresa May e il laburista Jeremy Corbyn), si presentasse anche Pippa Middleton con un suo partito matrimonialista, la cognata del principe William farebbe razzia di voti.

Della campagna elettorale, hanno parlato infatti solo i media e i londinesi, mentre il resto del Paese - almeno fino all’attentato di Manchester - si è appassionato piuttosto al vestito della novella sposa (firmato dallo stilista britannico Giles Deacon). Sul quale il dibattito ferve, solo offuscato dal lutto della strage, in un’alternanza schizoide di rosa e di nero, che cinicamente rinvia al famoso film “Quattro matrimoni e un funerale” però a rovescio.

Alle nozze di Pippa con James Matthews, finanziere dal passato sportivo, c’era fra gli altri il tennista Roger Federer, con il quale gli sposi hanno giocato a ping pong, ma nessun politico di rilievo. Il che la dice lunga su quanto il mondo dei partiti sia socialmente poco considerato oggidì in Inghilterra. Lontani i tempi in cui Cherie e Tony Blair erano l’ingrediente centrale dei party britannici più glam. Addio Cool Britannia. D’altro canto, bisogna pur riconoscere che Theresa May, per quanti sforzi faccia, è ben lontana dalle acconciature di ferro di Margaret Thatcher e al massimo sembra una badante con l’artrosi, per non parlare delle giacche di Corbyn, che devono risalire a molte taglie fa.

Scomparsa l’ombra dello Ukip e del suo leader Nigel Farrage (il quale in compenso conserva l’aplomb di un ben retribuito seggio al Parlamento europeo), la scena politica inglese è precipitata nel buio. Visto dalla provincia - quella stessa provincia che l’anno scorso decretò la Brexit - il Paese non appare alla vigilia di un appuntamento elettorale di un certo rilievo, bensì nel mezzo di un tragico marasma psicologico, peggiorato dal fantasma del terrorismo.
Theresa May

Molti di quelli che hanno votato per il divorzio dall’Unione Europea si sono più o meno pentiti, tuttavia fanno fatica a riconoscerlo apertis verbis. Credevano che la maggioranza si sarebbe espressa per il “remain”: il loro era un voto di protesta contro gli agi babilonesi della burocrazia di Bruxelles, contro le direttive sulle zucchine e gli aspirapolvere, ma pochi credevano di farcela davvero. Così la crisi di identità successiva al voto dello scorso anno è diventata psicodramma quando una parte dell’opinione pubblica si è appellata all’Alta Corte, per rimettere in discussione il risultato referendario. Come è noto, la Corte ha deliberato contro il volere del governo presieduto dalla signora May, decretando che il Parlamento dovesse esprimersi in materia. Cosa che è accaduta lo scorso marzo, confermando però la Brexit.

Da qui, il marasma. La premier, che durante la campagna pro o contro l’Europa si era guardata bene, pur essendo ministro dell’Interno, di esprimersi pubblicamente in proposito, è diventata la paladina della cosiddetta “hard Brexit”. La maggioranza dei suoi compagni di partito conservatore, che si era opposta all’uscita dall’Ue, in Parlamento ha votato a favore. E i laburisti? Non pervenuti. E qui sta forse il cuore dell’attuale dramma che però di shakespeariano ha poco, mentre ricorda molto da vicino la farsa malinconica di Mr Bean.

Tanto per dirne una, il leader del glorioso Labour ha già fatto sapere che, in caso di sconfitta, non si dimetterà dall’incarico, come farebbe chiunque dotato di buonsenso. Lui rimarrà - ha dichiarato - perché non è il popolo ad averlo eletto, bensì il partito. Lo stesso partito che, a dare retta ai sondaggi, oscilla oggi, grazie al suo generoso autolesionismo, fra il minimo storico e la disfatta. Si capisce che, con un simile avversario, la signora May nutra legittime fantasie di onnipotenza.

Infatti, la stampa britannica adesso non discute sull’esito della campagna elettorale né sui programmi politici di questo o di quello, quanto se i sondaggi siano affidabili nell’attribuire un vantaggio di dieci o venti punti ai Tories sugli sfidanti laburisti. Del resto, pensateci un momento: se in Italia il segretario del Pd non fosse Matteo Renzi, con tutti i suoi limiti e difetti, e neppure un Pisapia o un Bersani, ma un marxista-leninista convinto, molto più eccentrico di Maurizio Landini, quanti voti supponete che potrebbe raggranellare? Vogliamo dire, largheggiando, il cinque per cento? Ecco: questa è la situazione del Partito laburista post-blairiano. Di “new” ha solo la concreta possibilità di scomparire. Non parliamo dei liberaldemocratici: il percorso del Labour loro lo hanno già fatto e sono passati a miglior vita.
Jeremy Corbyn

Perciò, nella famosa provincia di cui sopra, dove il ceto medio si è paurosamente impoverito & imbarbarito - e non a caso ha individuato nell’Europa sciupona il primo di tutti i mali e nell’immigrazione il secondo - si considera mediamente Corbyn come un pronipote scaciato del vecchio presidente Mao. Certo che farebbero piacere un po’ di politiche sociali che ridessero fiato al mondo del lavoro e un’assistenza sanitaria meno slabbrata; nessun dubbio sul fatto che l’eccesso di privatizzazioni abbia portato al rincaro dei prezzi e insieme allo scadimento dei servizi (poste, treni eccetera): i temi sono così evidenti che perfino la signora May li ha inglobati in parte nel proprio programma, ma le ipotesi di nazionalizzazioni vagheggiate dal leader dell’opposizione vengono semplicemente liquidate come le fantasie assurde di una ricca borghesia radical chic con casa a Islington.

Ma se Islington (che una volta era un quartiere operaio di sinistra, mentre oggi costa un occhio della testa) piange, Holland Park (area che è sempre stata con i soldi) non ride granché. Sempre nell’ottica della provincia piuttosto agée che è poi la maggioranza del Paese, i conservatori sono visti come dei voltagabbana: non hanno mosso un dito durante il referendum dello scorso anno e, quando lo hanno mosso, era a favore dell’Unione Europea. Adesso hanno voluto le elezioni anticipate solo per approfittare della situazione e guadagnare voti. E non parliamo della famosa “intelligence” incapace di prevenire l’attentato alla Manchester Arena. Il che è esecrabile agli occhi di una piccola borghesia disgraziata, ma con un’alta considerazione di sé, come quella che popola la campagna e le piccole città britanniche. Senza aggiungere che dal marasma psicologico attuale potrebbe delinearsi il fantasma inconcepibile e mostruoso di un Regno che da Unito rischia seriamente di diventare diviso, frantumato e in definitiva irrilevante.

Già. La Scozia. Vecchia storia. Una storia cupa, minacciosa. Smesse da un pezzo le armi, i suoi abitanti hanno votato in massa un anno fa per rimanere in Europa, mentre al referendum del 2014 sull’indipendenza da Londra il 55 per cento si era espresso per restare nel Regno Unito. Ma ora? Ora gli scozzesi dicono per bocca della loro primo ministro Nicola Sturgeon di voler rimanere nell’Ue e perciò pretendono di andare di nuovo al voto. Il governo centrale si oppone: creerebbe incertezze economiche, indebolendo le trattative che presiedono alla Brexit, dice Theresa May. Tuttavia, presto o tardi, il nodo verrà al pettine - lo sanno tutti. Intanto, dubito che gli scozzesi voteranno per i Tories alle elezioni dell’8 giugno: dare forza al partito della signora May significa inevitabilmente allontanare la possibilità di un nuovo referendum sull’indipendenza nazionale.

E dopo la Scozia, ecco l’Irlanda del Nord. Che avrebbe tutti i vantaggi a rimanere in Europa affrancandosi definitivamente da Londra. Del resto, è dall’accordo di pace del 1998, da quando cioè il legame con l’Inghilterra è divenuto quasi solo formale, che la regione ha vissuto un significativo balzo economico: tornare a dipendere da un governo centrale britannico fuori del mercato comune europeo è un rischio che non piace né a cattolici né a protestanti. Per ora, da quelle parti, nessuno parla apertamente di referendum per l’indipendenza, ma il tema è nell’aria, inutile fare finta di non saperlo.

In tutta questa disastrosa confusione, con l’Arcivescovo di Canterbury Justin Welby, massima autorità spirituale del Paese, che a suo tempo si è espresso per il “remain”, mentre addirittura il suo predecessore Rowan Williams parla ora di rischio di fascismo in Inghilterra, gli unici a tacere - come di consueto - sono i reali. Tuttavia, i bene informati ci dicono che, nel corso di un pranzo a Buckingham Palace di qualche tempo fa, Elisabetta II si sarebbe lasciata sfuggire un certo benevolo apprezzamento per la Brexit. Al contrario di suo figlio Charles, che avrebbe sussurrato l’opinione opposta.

Ecco perché, disuniti in tutto, oggi gli inglesi si disinteressano apertamente di politica, elezioni e compagnia bella. E mentre i commentatori si affannano a prevedere la vittoria scontata di Theresa May, pochi riflettono sulla possibilità che l’affluenza alle urne registri un minimo storico senza precedenti. A ogni modo, i sudditi di Sua Maestà, per ora, si appassionano perlopiù alle scollature di Pippa. Del resto, è noto che in periodi di marasma i cosiddetti valori forti riemergano sovrani. Magari conditi dalle immancabili candele e dai peluche ammucchiati davanti alla Manchester Arena, da trasformare in tempi brevi nell’ennesimo tempio ai buoni sentimenti cattivi di una società ipnotizzata dal proprio narcisismo.