Dalla marcia arrivata domenica a Istanbul nasce un movimento non violento e trasversale che si oppone al regime con lo slogan  “diritti, legge, giustizia”.  Tra loro laici e religiosi, comunisti e conservatori, giovani universitari, molti insegnanti licenziati. Ma per il governo sono solo "terroristi" e "cospiratori"

«È una marcia di terroristi! Ci sono membri della formazione separatista curda Pkk che camminano fianco a fianco con il leader dell’opposizione Kemal K?l?çdaro?lu. Abbiamo visto cospiratori del Feto, l’organizzazione terroristica di Fethullah Gülen, accamparsi insieme a lui poco prima dell’ingresso a Istanbul. E’ un incosciente, la giustizia va cercata nei tribunali e nel Parlamento, non per la strada!».

Nell’ufficio di una consulente del Presidente Erdogan, nel palazzo megagalattico costruito nel bel mezzo della “foresta Ataturk” di Ankara, la protesta non-violenta guidata dal leader dell’opposizione turca non viene accolta con spirito di autocritica. Guardare sui grandi schermi al plasma la folla oceanica che accoglie K?l?çdaro?lu al termine di una marcia di oltre 450 chilometri, dopo aver scommesso che non sarebbe mai arrivato fino in fondo, non è il programma ideale per un pomeriggio d’estate altrimenti tranquillo.
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Erano partiti in poche migliaia a metà giugno dal parco Guven di Ankara, la scritta “Adalet”, “giustizia”, stampata sui cartelli e sui cappellini. Obiettivo: marciare per centinaia di chilometri fino a Istanbul, sfidare il bollore estivo dell’Anatolia centrale, occupare le strade inscenando una protesta pacifica contro il governo. «Vogliamo ripetere la marcia del sale di Gandhi negli anni ‘30», raccontava l’attivista del partito repubblicano Nazim Arda Cagdas, rievocando la protesta con cui il “Mahatma” mise in difficoltà le autorità coloniali inglesi in India. Ecco che allora nei cori della folla il leader Kemal K?l?çdaro?lu diveniva ‘Gandhi Kemal’: il suo seguito di camminatori pacifici era almeno decuplicato all’arrivo ad Istanbul settimana scorsa. «Ogni Faraone ha il suo Mosè, oggi battezziamo un nuovo inizio», proclamava K?l?çdaro?lu nei pressi della prigione dove è rinchiuso il suo compagno di partito Enis Berbero?lu, «i giudici emettono sentenze cercando di interpretare il volere del capo, come sotto il nazismo». La folla lo interrompeva con il grido “diritti, legge, giustizia”, lo slogan che ha accompagnato la protesta attraverso tutto il paese.

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All’inizio della marcia, nella capitale Ankara, un uomo di 65 anni con la barba lunga e gli abiti religiosi di nome Veysel Kilis si rivolgeva così a “L’Espresso”: «Ho viaggiato per tutta la notte, da Istanbul, per partecipare fin dall’inizio. Digiuno, rispetto tassativamente il Ramadan, ma marcerò fino alla fine. Perché dopo il fallito colpo di stato l’ingiustizia in questo paese è divenuta intollerabile».

Il figlio di Veysel, Selettin Kilis, 20 anni, è rinchiuso nella prigione di Silviri a Istanbul dai giorni immediatamente successivi al fallito coup del 15 luglio scorso. Proprio come il figlio di Ayten, una donna velata che camminava al suo fianco ed ammette: «Una volta eravamo tutti sostenitori del Presidente Erdogan». I loro figli sono accusati di avere preso parte, in una qualche maniera non ancora chiarita dai magistrati, al tentativo di colpo di stato. Di essere, in altre parole, dei “gulenisti”, visto che è alla setta islamista guidata dal predicatore Fathullah Gulen che il governo attribuisce la “cospirazione del 15 luglio 2016”. Tanto basta perché la stampa filo-governativa bolli anche i genitori come “terroristi”.

«Ma Selettin non c’entra niente, non è gulenista», protesta il padre Veysel Kilis. L’Espresso lo ha ritrovato addobbato della stessa bandiera turca e della stessa stampa di una lettera del figlio dalla prigione alla fine della marcia ad Istanbul. Dice la lettera: «Caro papà, ero uno studente di successo al liceo, ma poi mi hai costretto ad andare all’Accademia militare. Ci hanno portato al ponte sul Bosforo nella notte del fallito coup dicendoci che si trattava di un’esercitazione imprevista. Da lì la polizia mi ha portato dritto in tribunale e poi chiuso in galera. Di chi è la colpa, mia o tua?».

Nell'anno trascorso dal fallito golpe del luglio 2016 circa 50.000 persone sono state arrestate e 110.000 licenziate per effetto di decreti presidenziali. È quello che il capo dell'opposizione Kemal Kilisdaroglu ha chiamato il "colpo di stato riuscito del 20 luglio", il giorno della dichiarazione dello stato di emergenza che ha permesso al governo di reprimere veri o presunti “nemici della Repubblica”. La caccia alle streghe del post-golpe si è concentrata appunto sui seguaci di Fethullah Gülen, il predicatore islamista che ha collaborato con Erdogan per estinguere il vecchio potere dei militari laici ma si è poi scontrato duramente con il suo governo.

Fin dagli anni ’70 la sua organizzazione accumulava potere attraverso la penetrazioni nelle burocrazie statali, lesinando il coinvolgimento diretto in politica. Una divisione dei ruoli con Erdogan che ha funzionato bene fino alla fine del 2013, quando alcuni magistrati legati a Gulen hanno aperto inchieste con accuse di corruzione contro uomini dell’esecutivo dell’AKP. Da allora la galassia culturale e organizzativa che fa riferimento a Gulen è divenuta “Feto”, ossia “organizzazione terrorista di Fethullah (Gulen)”. Il golpe è avvenuto all’alba della “maxi-purga” che doveva ripulire l’esercito dalla setta, un indizio che ha fatto ricadere l’accusa sull’organizzazione fin dalle prime ore del 16 luglio. Nel corso dell’ultimo anno sono in effetti emerse delle prove contro il movimento, anche se le dinamiche del golpe rimangono tutt’altro che chiare. Quello che è certo è che il governo ha utilizzato lo spauracchio del 15 luglio per attaccare avversari politici che con la presunta rete golpista Feto non avevano nulla a che fare. Un fatto che si riflette nella varietà umana della “marcia per la giustizia” di Kilisdaroglu.

«Erdogan ha definito il golpe un dono di Dio», dice Devrim K?l?çer, una camminatrice. «Guardati attorno e capirai perché». Alla marcia per la giustizia c'erano curdi e nazionalisti, laici e religiosi, comunisti e conservatori, gente di destra e gente di sinistra.

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K?l?çer è una quarantenne laica, il corpo tatuato e il piercing sul naso. Racconta: «Insegnavo letteratura americana all’università di Ankara, ma a febbraio mi hanno licenziata perché nel gennaio 2016 ho firmato una petizione contro l’operazione militare condotta dall’esercito turco nelle città curde del sudest».

Si inserisce il suo collega Mustafa Kemal Coscun, stessa petizione e stessa sorte: «Siamo a centinaia ad essere stati licenziati per una firma, adesso sto cercando lavoro ma per un sociologo la vita si fa dura fuori dall’accademia».

I professori licenziati dall’Università di Ankara hanno deciso di usare l’arma della disobbedienza civile ancora prima della “marcia per la giustizia” di Kilisdaroglu. «Insegniamo lo stesso», racconta Dincer Demirkent, un Professore di legge costituzionale che si era opposto al sistema presidenziale con cui Erdogan ha acquisito nuovi poteri lo scorso Aprile, «solo che lo facciamo nei parchi invece che nelle università». Al parco Kugulu di Ankara, fra ex studenti, colleghi e curiosi, non si può dire che gli manchi il pubblico. «Nella regione più violenta del mondo ci giochiamo la carta della non-violenza», spiegano i docenti.

La deputata AKP Ravza Kavakç? Kan liquida la loro protesta dal Parlamento di Ankara (i punti danneggiati dai bombardamenti nella notte del golpe sono stati messi sotto vetro come in un museo). “Circostanze eccezionali richiedono misure eccezionali per la Turchia”, dice, “quella petizione era molto aggressiva, accusava l’esercito di compiere dei “massacri”, e comunque le questioni attinenti alla giustizia vanno dibattute nei tribunali”. E a proposito della marcia: “Il partito repubblicano ha poco da insegnare al governo in fatto di repressione”, dice, “Quando mia sorella Merve Kavakci divenne deputata e provò a giurare col velo nel 1999, in tempi in cui ancora dominava l’establishment kemalista, le tolsero il seggio e perfino la cittadinanza”.

Alla marcia per la giustizia erano in tanti ad indossare magliette con i volti di Nuriye Gulmen e Semih Ozakca, due insegnati di Ankara che per attirare maggiore intenzione sono arrivati a rischiare la vita con un prolungato sciopero della fame. Ormai ben oltre il centesimo giorno di digiuno, continuano imperterriti malgrado l’allarme dei medici nel carcere in cui sono rinchiusi con l’accusa di appartenere al gruppo armato rivoluzionario DHKP-C.

“Vogliono solo riavere il proprio lavoro”, spiega la moglie di uno dei due, Esra Özakça, che protestava ogni giorno nei pressi del monumento per i diritti umani a Piazza Yüksel ad Ankara fino a quando la polizia lo ha reso inaccessibile con una recinzione. “Non abbiamo più fiducia nella giustizia”, dice, ricordando che dopo il referendum dello scorso Aprile l’organismo responsabile per la selezione di giudici e magistrati è passato sotto il controllo pressoché totale del Presidente Erdogan.

Tanto che alla marcia i sostenitori del partito filo-curdo HDP, i cui leader Selahattin Demirta? e Figen Yüksekda? sono rinchiusi in carcere da Novembre insieme ad una decina di altri parlamentari, dicono di temere di non rivederli più. “Noi protestiamo, con ululati e applausi, quando non ci fanno entrare in tribunale durante i loro processi. Compriamo le edizioni in bianco dei giornali che invocano la libertà d’espressione e gridiamo “adelet”, giustizia, durante tutta la marcia ghandiana. Il Mahatma amava definirsi non un ‘visionario’ ma un ‘idealista pragmatico’: speriamo che tutto questo serva a qualcosa”.