E' il campo profughi più grande del mondo: un milione di persone fuggite dalla Birmania di Aung Suu Kyi. Molti i minorenni (Foto di Gabriele Cecconi per L'Espresso)
La spiaggia più lunga del nostro pianeta (che per brevità chiameremo Il Paradiso) è costituita da 120 km ininterrotti di sabbia finissima, mare placido, rari alberghi, rari ombrelloni, ogni tanto una barca a mezzaluna portata a terra dai pescatori bengalesi. Alle sue spalle c’è una foresta tropicale con qualche collina. Il Paradiso si trova in un distretto del Bangladesh chiamato Cox’s Bazar. La sua industria principale è il turismo. Il campo profughi più grande e più affollato del pianeta (che per brevità chiameremo L’Inferno) è costituito da decine di migliaia di baracche di plastica e bambù, popolate da più di un milione di profughi Rohingya, fuggiti dalla regione birmana del Rakhine.
In molte sue parti questo immenso campo è una screpolatura della terra, sovrappopolata ma senza alberi, perché gli alberi sono stati tagliati come legna da ardere per cucinare o da vendere per due soldi. In molte sue parti circolano malattie del corpo e/o della mente. In molte sue parti puzza di escrementi in modo asfissiante, un odore favorito dal caldo torrido e dall’umidità al 100% di questa stagione.
L’Inferno si trova in un distretto del Bangladesh chiamato Cox’s Bazar. La sua industria principale è la disperazione. Il Paradiso e l’Inferno esistono. Stanno nello stesso posto: il distretto di Cox’s Bazar. E sono a pochi chilometri di foresta l’uno dall’altro. Sono entrambi coprodotti dalla globalizzazione. Però i loro rispettivi frequentatori non si incontrano mai. Jasmine ha poco più di un anno e ha già fatto un errore: sta crescendo dalla parte sbagliata della foresta. Ma la scelta non è stata sua. «Jasmine aveva soltanto un mese quando i militari birmani arrivarono l’anno scorso nel nostro villaggio di Powakali», spiega sua madre Sadida, una Rohingya musulmana di 20 anni. Parla a voce bassa, tiene gli occhi bassi. «Ci gridarono di andarcene dal Myanmar. Noi non uscivamo di casa per paura. Ma entrarono loro. Presero gli uomini e ne uccisero diversi, fra cui mio marito». E le donne? Sadida gira la testa e non risponde; del resto non c’è bisogno di parlare. In un durissimo rapporto pubblicato nel settembre 2018, la Commissione dell’Onu sulla questione Rohingya in Myanmar scrive: «Una caratteristica delle operazioni dell’esercito birmano contro i Rohingya è la violenza sessuale. La dimensione del fenomeno, la sua crudeltà e la sua natura sistematica rivelano oltre ogni dubbio che lo stupro viene utilizzato come tattica di guerra, strumento di una pulizia etnica che comprende anche le uccisioni di bambini». Sadida e i suoi figli sono fuggiti qui soltanto l’anno scorso, ma la crisi Rohingya è molto più antica: il mondo le ha lasciato il giusto tempo per incancrenirsi. Quando Sadida dice “qui” intende il campo profughi di Kutupalong, che fu uno dei primissimi a sorgere in Bangladesh, all’epoca della prima ondata di gente che scappava dal Myanmar: era il 1992, la Nobel per la pace Aung San Suu Kyi era ancora agli arresti domiciliari, il Myanmar era una ferrea dittatura militare e i Rohingya fuggiti in Bangladesh erano poche decine di migliaia.
Oggi, 26 anni di indifferenza dopo, i profughi sono un milione, il Bangladesh (esteso meno della metà dell’Italia ma con 160 milioni di abitanti) non ha più risorse per gestire questa crisi, i campi come Kutupalong da 2 sono diventati oltre 20 e a furia di gonfiarsi di baracche si sono fusi in un unico mostro, che prende il nome dal Sotto-distretto in cui si trova: Ukhia. Jasmine - piccola e magra come un fuscello - è adagiata su un letto di un centro di assistenza a Kutupalong/Ukhia, gestito da Azione contro la Fame, una delle due organizzazioni umanitarie internazionali (l’altra è Medici Senza Frontiere) che intervennero per prime su questo terreno di crisi. «Quando nel campo arriva un bambino, i volontari Rohingya che collaborano - retribuiti - con noi individuano la baracca dove vive, spiegano alla madre che vogliamo aiutarla e, con il suo consenso, mettono al bimbo un Muac, un braccialetto che misura la circonferenza del braccino e che ci fa capire fino a che punto sia malnutrito», spiega Licia Casamassima, della sezione italiana di Azione contro la Fame. «Poi, in qualche Centro come questo i nostri pediatri e nutrizionisti pesano e visitano il bimbo, propongono alla madre un programma alimentare e terapeutico (e nel caso degli infanti l’allattamento al seno anziché il latte in polvere), infine le necessarie istruzioni igienico-sanitarie. Questo centro, in quest’area del campo, si occupa di cinquemila bambini sotto i 5 anni».
Metà dei profughi che sopravvivono nel campo sono minorenni. Ogni persona ha traumatiche storie di dolore e di violenza alle spalle, e per questo anche l’Inferno mostra un volto compassionevole: ci sono centri di counseling gestiti da varie Ong, sia per gli adulti sia per i piccoli. «Tutti qui hanno perso tutto. Hanno perso parenti, casa, amori, lavoro, scuola, fiducia nel futuro. Hanno paura e la paura genera rabbia: gli uomini picchiano le donne che a loro volta picchiano i bambini», spiega Jinat Jahan, 28 anni, una psicologa cognitivo-comportamentale di Dacca, trasferitasi qui per collaborare con Azione contro la Fame. «Il lavoro da fare è enorme e noi psicologi troppo pochi. Ma mi consolo guardando i bambini: arrivano nel nostro centro disegnando violenze e guerra, e un anno dopo disegnano boschi e fiori tutti colorati. È questa la mia maggiore soddisfazione». Aiutare i bambini a crescere in questa Città della Non-gioia, esposta a rischi e malattie di ogni genere, è difficile. Bisogna partire dalle cose più elementari: su un muro (un vero muro, che qui è già una cosa di lusso) c’è appeso un cartello che spiega - in 6 mosse - come lavarsi le mani. È per gente che quasi mai ha visto un sapone e non sa cosa farsene. I bambini imparano subito: di solito giocano nelle pozzanghere di fango però poi fanno la fila per lavarsi mani e faccia, prima di entrare nelle mense comuni di Azione contro la Fame. Per gli adulti invece è più difficile imparare. Ma a loro pensa Habibur Rahman, un Rohingya di 35 anni, di professione cantante-educatore. Perché canti, Habibur? «Perché ho sempre cantato. Poi, 12 anni fa, i militari hanno preso il mio villaggio, Buchidong, perché volevano farci lavorare gratis come schiavi. Sono fuggito qui, e ho capito che cantando potevo aiutare». E cosa canti, Habibur? «Lavatevi le mani/lavatevi le orecchie/lavate tutto il corpo/lavate anche le pentole/che usate per mangiare... canto cose così, uso melodie tradizionali e ci metto questi messaggi. E loro mi ascoltano». E in effetti, mentre canta, Habibur è circondato da un piccolo ma rispettoso pubblico di ascoltatori adulti. Ci vuole creatività per sopravvivere qui. E a volte per risolvere i problemi quotidiani ci vuole un piccolo colpo di genio.
Un esempio? Secondo un recente studio dell’Onu pubblicato dal quotidiano bangladeshi Daily Star, l’impatto ambientale del campo profughi sulla regione è spaventoso: i Rohingya hanno già tagliato 1.740 ettari di foresta, e per questo all’inizio venivano attaccati da furibondi elefanti, che non trovavano più il loro habitat. Come evitare che i profughi taglino altri alberi per avere legna in cucina? E ancora, come evitare che escrementi e liquami circolino in questo luogo che non ha fognature? Soluzione trovata dai ragazzi di Azione contro la Fame: mettere le latrine in alto, sulla collina, veicolando i liquami nelle cucine a bio-gas, poste in basso, che li riciclano come combustibile. Le cucine comuni a bio-gas servono ciascuna da 15 a 20 famiglie di profughi. Ma non sono sufficienti. Le Ong sono alla ricerca di donazioni.
Sowyed Nur, invece, è alla ricerca della sua vita rubata. In un centro di auto-aiuto pisicologico per maschi, si sfoga: «Ho 18 anni e l’anno scorso nel mio villaggio di Attapurma ho visto mia madre e mia sorella violentate dai militari. Hanno ucciso il mio fratellino. Sono fuggito a piedi con altre duemila persone e in 10 giorni siamo arrivati qui. E non esisto: non sono birmano perché il governo del Myanmar considera noi Rohingya come discendenti di antichi immigrati bengalesi e dice che dovremmo tornare a casa nostra; ma non sono neanche bengalese perché il Bangladesh dice che sono un profugo birmano. Non ho un documento di identità, non ho un lavoro, vorrei studiare ma qui la scuola è solo per bambini e io non posso frequentare una scuola fuori dal campo perché è vietato uscire. Cosa potrò fare?». La risposta potrebbe essere da brividi. «I Rohingya sono i nuovi Palestinesi dell’Asia», dice Imtiaz Alì, curatore del libro “The Plight of the Stateless Rohingyas” (University Press, Dhaka) e docente di Relazioni Internazionali all’Università di Dacca. «Come i Palestinesi sono stati perseguitati e ormai in maggioranza sono esuli dalla propria terra, dispersi in Asia e non solo. Come molti Palestinesi vivono in Campi profughi che dovevano essere provvisori e sono diventati eterni. Come i Palestinesi sono un popolo senza Stato. Ma soprattutto, i Rohingya sono stati per troppo tempo ignorati e dimenticati. Da tutti».
Almeno fino al giro di boa del 2017, quando in soli tre mesi sono fuggiti all’Inferno, cioè nel campo in Bangladesh, ben cinquecentomila profughi. Erano contadini terrorizzati dai militari birmani che cercavano nei villaggi di campagna i covi dell’Arsa, il gruppo armato Rohingya che aveva commesso un attentato. Solo allora, di fronte all’immensità di quella migrazione di massa, il mondo si è svegliato. E si è chiesto, senza trovare una risposta: qual è la vera origine di questa tragedia? E perché la premio Nobel per la pace, Aung San Suu Kyi, tace su tutto ciò? Le risposte in realtà sono molte.
Anzitutto, non è vero che Aung San Suu Kyi detenga il potere, come si crede in Occidente.
«I militari non solo controllano un quarto dei seggi del Parlamento ma anche tre ministeri-chiave per la questione Rohingya: Confini, Difesa, Interni», spiega il giornalista-scrittore Emanuele Giordana, curatore del recentissimo libro “Sconfinate. Terre di confine e storie di frontiera” (Rosenberg & Sellier) ma anche autore del capitolo dedicato ai Rohingya. «La minaccia è che se Suu Kyi, il suo partito e il suo governo dovessero tirare troppo la corda, i militari potrebbero ricorrere a un articolo della Costituzione che prevede che l’esercito possa ribaltare il governo in carica nel momento in cui esiste un pericolo reale per la stabilità del Paese. Con un golpe costituzionale, perfettamente legittimo». Un rischio concreto. La democrazia birmana è ancora fragilissima. Ma ci sono anche ragioni più oscure e poco note, alla base del comportamento della leader democratica. Aung San Suu Kyi è figlia del Padre della Patria birmana, il generale Aung San. E fu proprio lui, suo padre, che al momento di trattare l’indipendenza con i colonialisti inglesi, fra il 1947 e il 1948, convocò i rappresentanti di tutte le 135 minoranze etniche della Birmania... tranne una. Tutte tranne i Rohingya. Che così furono esclusi dalla piena cittadinanza nel nuovo Stato. Il motivo? Sui Rohingya pesava (e pesa) l’accusa di tradimento.
Durante la Seconda Guerra Mondiale appena conclusa, tutti i birmani si erano alleati ai giapponesi in odio al colonialismo britannico, mentre solo la comunità Rohingya aveva scelto l’Inghilterra e gli Alleati. Il Padre dell’indipendenza birmana non perdonò mai il “tradimento”. Anche perché, prima di tutto, era e ragionava da militare. I generali dopo di lui si sono comportati allo stesso modo. E questa è la ragione profonda dell’imbarazzato silenzio di sua figlia: non può tradire la memoria personale e politica del Padre della Patria. Poi, per quanto riguarda i militari birmani, vi sono ovviamente anche altre, più pratiche, motivazioni: la regione dei Rohingya, il Rakhine, ha un sottosuolo ricco di petrolio e fa gola. Inoltre la differenza religiosa - una minoranza musulmana in una nazione buddhista - è mal vista da molti. Ognuno trova ottime ragioni per odiare questo popolo senza pace. Ma le ragioni degli altri interessano poco al venditore di limonate del Campo, che ha il nome di un pugile leggendario: si chiama Mohamed Alì, ha 56 anni e gli manca una gamba. Domani, come ogni giorno, porterà il suo carretto di limonate nel solito angolo fangoso del Campo. «Il carretto l’ho comprato con gli aiuti ai disabili dati da Azione contro la Fame. I militari mi avevano sparato: ci ho perso una gamba e ci ho guadagnato questo carretto... Ma non giudico Aung San Suu Kyi. Chi sono io per farlo? Solo Dio può giudicare».
Dubitiamo che tutti, nel Campo profughi di Ukhia, siano saggi come Mohamed Alì. Domani, come ogni giorno, l’esercito di pace delle Ong ricomincerà la propria battaglia quotidiana contro le molte miserie del Campo. Ci saranno soltanto loro, i ragazzi delle Ong, a fare da fragile muro umano fra la disperazione rabbiosa dei Rohingya, e il resto del mondo. Non c’è più tempo per dimenticare. E neanche ci conviene farlo. n