
Trump affronta di petto, a modo suo, il nuovo disordine globale. Il suo approccio è realistico: l’ambizione americana, dopo la caduta dell’Urss, di ridisegnare il mondo attorno all’ombelico del proprio Campidoglio, è crollata. Trump è il prodotto di un radicale disincanto, il disincanto dalle visioni democratico-cosmopolite che avevano rappresentato elemento essenziale della “religione americana”. Esse si incarnavano nell’idea di un multilateralismo, sì, ma fondato sul riconoscimento universale che agli Stati Uniti soltanto potevano spettare onore ed onere di tenere il mondo “in forma”. Trump risveglia da tale “sonno dogmatico”: un multilateralismo pacifico è sogno di anime belle, esso è concepibile soltanto come competizione, scontro tra volontà egemoniche. Gli Stati Uniti non possono pretendere ad alcuna egemonia per “meriti speciali” riservati ai loro princìpi e neppure per il loro attuale, e sempre più fragile, primato economico-militare.
Gli Stati Uniti sono chiamati a lottare in un’arena internazionale destinata a diventare sempre più dura, spietata, complessa. E a lottare, se continueranno le tendenze degli ultimi decenni, con armi sempre meno efficaci o temibili. L’aggressività arrogante di Trump maschera fin troppo chiaramente questa diagnosi: “America first” significa che l’America non lo è più, e che il suo sogno di essere l’Autore del nuovo Ordine è fallito. Si aggredisce con i toni dei Trump quando si è certi di doversi difendere con le unghie e coi denti.
Quando e come le attuali potenze globali, trasformate intanto chissà come, potranno sedersi a un tavolo per concordare i nuovi assetti del mondo, lo sa il Signore. Una pace di Westfalia è oggi imprevedibile nei tempi e nei modi. E forse non potrà giungere, anche questa volta, se non attraverso i più tragici conflitti. Trump di certo non lo esclude. Ma segue la pericolosissima massima antica: se vuoi la pace, assicura il nemico di esser pronto alla guerra. I risultati delle elezioni non sono tali da far prevedere modifiche importanti in questa strategia. L’imposizione di dazi aggressivi, decisa o minacciata, continuerà, così come lo sforzo per bloccare l’escalation cinese nell’acquisizione di tecnologie e imprese di avanguardia. Nel mantenere e rafforzare il proprio primato in questi settori (che comprendono i giganti del web) gli Usa si giocheranno nel prossimo futuro buona parte anche della propria potenza politica. E Trump lo sa. Proseguirà il confronto a tutto campo con la Russia, dall’area mediorientale a quella est europea, arrischiandosi fino al punto di rottura, come potrebbe accadere se il rovesciamento della politica di Obama sull’Iran dovesse spingersi oltre le sanzioni.
L’Europa è già del tutto coinvolta in questo mutamento radicale di strategia, niente affatto improvvisato, che Trump ha imposto alle vecchi dinastie politiche democratiche e repubblicane. L’Europa dovrà anzitutto pagarsi la propria difesa, ammesso, e non concesso, voglia averne una. L’Europa non potrà più puntare per il proprio sviluppo (vero, Germania?) su cospicui avanzi commerciali. L’Europa dovrà differenziare (vero, Italia?) i propri approvvigionamenti energetici. E forse - e questa è la più “catastrofica” per noi delle novità - l’Europa dovrà rinunciare alla grande idea-simbolo che ne ha retto la rinascita dopo il suicidio della seconda grande Guerra, quella di un’unità politica federale.
L’America first ha infatti questo inevitabile corollario: qualsiasi nuovo grande spazio politico, coeso all’interno e inevitabilmente competitivo all’esterno, non può che aggravare la crisi dell’egemonia americana. Ed è la consapevolezza di questa crisi a fare da sfondo alla politica trumpiana.
La mobilitazione popolare cui si è assistito in occasione di queste elezioni mid-term assume grande significato alla luce di quanto si è detto. Per la strategia di Trump la crescita di certi settori dell’elettorato costituisce la minaccia fondamentale. Prima che - come avverrà nel giro di una generazione - gli abitanti degli Stati Uniti siano in maggioranza afro-americani e latini è necessario, per Trump, che la politica americana venga ferreamente incardinata sul principio dell’affermazione nazionalistica contro tutto e tutti, cosi che nella “massa-popolo” tendano a scomparire le profonde differenze culturali e politiche di cui quelle etnie sono portatrici. È forse ormai realistico pensare che un nuovo Ordine per questo secolo, fondato sul riconoscimento reciproco tra grandi spazi politici e diverse culture, dovrà, per vedere la luce, se mai la vedrà, attraversare per forza la prova del fuoco che Trump rappresenta. E con Trump le sue diverse immagini o imitazioni diffuse per tutto l’Occidente.