
Oggi la testa in discussione, solo metaforicamente per fortuna, è quella di Emmanuel Macron, 40 anni, il giovane presidente-Giove, colui che voleva rinverdire i fasti della grandeur ripristinando i segni ieratici del potere dopo un predecessore “normale” (Hollande) e uno bling-bling (Sarkozy). L’Eliseo è la roccaforte da espugnare come la reggia di Versailles un tempo. Sale dalla folla un’impossibile richiesta di dimissioni per il piccolo principe di Amiens fattosi dio dell’Olimpo, ma rotolato in soli diciotto mesi (una repentina caduta più o meno simile a quella di Matteo Renzi) ai piedi del monte di popolarità, dal 64 per cento di inizio mandato al 25 per cento secondo un sondaggio Ifop.
Dal significativo scenario della portaerei Charles de Gaulle, per arginare il malcontento crescente, in favore di telecamera si è rivolto ai concittadini per il primo atto di umiltà: «Condivido la collera. Non sono riuscito a riconciliare il popolo francese con i suoi dirigenti». Salvo chiamare in causa, come attenuante, i suoi colleghi leader: «Succede in tutte le democrazie». Un indizio della frattura l’aveva del resto ricavato alcuni giorni prima in visita allo stabilimento della Renault di Mauberge quando un sindacalista, Samuel Beauvois («sono in questa fabbrica da 27 anni»), lo aveva apostrofato: «Lei non è il benvenuto qui, signor Macron». E l’aveva accusato di riprendersi «con l’aggravio delle tasse» i miglioramenti salariali.
Durante la campagna vittoriosa del 2017, Macron aveva più volte dovuto difendersi, in epoca di populismo montante, dalla biografia ingombrante, gli studi a Sciences Po e all’Ena, il lavoro all’ispettorato delle Finanze e alla banca d’affari Rothschild, gli incarichi ministeriali. Un primo della classe ad ogni stagione della ancor breve vita. Ma proprio perché aveva già guadagnato a sufficienza poteva permettersi, rassicurava, di dimenticare il mondo dorato da cui proveniva per lavorare a favore del bene di tutti.
Fino al paradosso di un’accusa rovesciata che ora gli viene mossa, ad esempio, da Bruno Retailleau, presidente dei senatori di “Les Républicains” (destra), il quale individua nella sua scelta di «saltare i corpi intermedi» per parlare direttamente agli elettori, l’origine dei rovesci di fortuna. Come se in Francia esistessero solo due soggetti politici, il presidente e il popolo. Naturalmente si spreca il sarcasmo. Nei media compaiono frasi come “non cammina più sulle acque”, “non ha più energia”. “Dove è finito il presidente Duracell?”. Persino i tre giorni di vacanza che si è preso alla vigilia del suo autunno caldo diventano tema di discussione. «Perché riposa se era così eccezionale da vantare un vitalismo grazie al quale può dormire poche ore per notte ed essere in forma?». Gaspard Gantzer, portavoce del suo predecessore: «Hollande, durante il quinquennato, non si è mai preso giorni liberi. Se sei presidente devi essere 7 giorni su 7, 24 ore su 24, al servizio dei francesi».
Jacky Isabello di “Coriolink”, agenzia di comunicazione pubblica, chiosa: «Macron sembra un uomo rassegnato. Da quattro mesi sbaglia ogni mossa. Non è da leader dire che non riesce a conciliare base e vertice. Si perde di autorità e così è difficile fare le riforme».
Travagliate riforme, peraltro. Come la “Loi travail”, la legge sul lavoro, sulla falsariga del jobs act renziano, accompagnata da proteste di piazza in un Paese geloso dei diritti e restio a perderli. O ancora quella, persino più controversa, che ha cancellato l’Isf, l’imposta di solidarietà sulla fortuna, voluta da François Mitterrand quasi 40 anni fa, per la quale i super-ricchi versavano all’erario più di 4 miliardi di euro contro gli 850 milioni che ora si ricavano dopo il regalone.
L’intento era quello di favorire gli investimenti, magari anche il rientro di capitali. Ma naturalmente è partito il refrain sul “presidente dei ricchi”, come osserva Djordje Kuzmanovic, portavoce di “France Insoumise”, la formazione del tribuno di estrema sinistra Jean-Luc Mélenchon: «Una defiscalizzazione che ha obbligato l’esecutivo a varare tasse supplementari a scapito del popolo». Così l’alleggerimento delle imposte sulle case ha finito per essere assorbito da gabelle palesi e occulte. Tanto che la valutazione di un aumento del potere d’acquisto medio dell’1,4 per cento nel 2018 deve essere decrittata, secondo l’economista Alexandre Delaigue, prendendo a prestito la famosa teoria dei polli. Perché sono i salari più alti (solita élite) ad aver fatto segnare i progressi maggiori, non certo operai e impiegati. Accomunati, nel loro impoverimento, ai pensionati che pure soffrono, a conti fatti, di una decurtazione.
Nel malcontento diffuso, le accise sul diesel sono state il detonatore che ha fatto esplodere la Francia, aggravando il conflitto di classe e tramutandolo anche in un conflitto geografico. Perché è riemerso, persino in uno Stato fortemente centralizzato e fagocitato dall’imponente immagine di Parigi, il dualismo tra città e campagna già registrato per la Brexit, l’elezione di Trump, e più anticamente, rimanendo a casa nostra, per i primi successi della Lega Nord nella fascia pedemontana. È accaduto che, in nome della cosiddetta “conversione ecologica”, il governo ha deciso di disincentivare l’uso delle macchine a gasolio a favore di automobili che marciano con energia più pulita. Così invertendo una politica del passato orientata verso il diesel, il cui prezzo è aumentato del 23 per cento fino a toccare la soglia psicologica di 1, 50 euro al litro (sempre meno che in Italia, dunque). Ma se l’ecologismo è un valore che i parigini possono permettersi avendo a disposizione una rete efficiente di metro e treni di vario genere, diversamente va in provincia dove il taglio di molti servizi di trasporto obbliga di fatto gli abitanti a muoversi con l’automobile per le incombenze quotidiane. Il video di una signora bretone, Jacqueline Mouraud, tre figli, musicista, ipnosi-terapeuta, in cui sfida Macron a spiegare dove finiscono i soldi ricavati dagli automobilisti tartassati, è diventato virale ed ha contribuito al fiorire del fenomeno dei “gilets jaunes”, i giubbetti gialli, dall’indumento che si deve obbligatoriamente avere nell’abitacolo. Una protesta spontanea (già, è saltata l’intermediazione) contro l’esecutivo, articolata su blocchi della circolazione che paralizzano l’Esagono e accompagnata da una serie di violenze. In origine sottovalutata perché senza capi e senza organizzazione, la rivolta ha assunto in breve dimensioni inattese: i francesi sanno come fare quando s’incazzano e la loro storia lo dimostra. Seppur discretamente, i partiti d’opposizione, senza distinzioni, cercano di cavalcare la protesta mandando militanti sulle barricate anche se in assenza di vessilli perché i movimenti allo stato nascente non sopportano di essere egemonizzati. Marine Le Pen li appoggia, Jean-Luc Mélenchon pure.
Persino il presidente dei Républicains Laurent Wauquiez esprime simpatia, sperando in un recupero di terreno mai riuscito nonostante le difficoltà dell’esecutivo. Un dapprima silente capo dello Stato dal Belgio dove si trova fa rimbalzare un invito al “dialogo” e allude a una regia nascosta perché «le cose non accadono spontaneamente» mentre il suo ministro dell’Interno Christophe Castaner denuncia la «deriva totale» di un movimento «che si sta radicalizzando».
Di certo dietro al vessillo della rivendicazione economica sono comparsi ai blocchi del traffico i mal di pancia del Paese profondo sempre più lontano dal cosmopolitismo della capitale. Una donna musulmana è stata obbligata a togliersi il velo mentre era al volante, un’altra insultata perché nera.
Slogan contro gli omosessuali sono stati in diversi casi la colonna sonora. In generale l’insofferenza della persistente Francia vandeana, sempiterno doppio della nazione del progresso e dei diritti. Tutto a vantaggio di Marine Le Pen il cui partito, stando ai sondaggi, è risalito al primo posto (20,5) e precede di mezzo punto la formazione del presidente che si chiama “La République En Marche”? Ne dubita Jean-Yves Camus, direttore dell’Osservatorio delle radicalità politiche alla fondazione Jean-Jaurès, il quale ha visto piuttosto sulle barricate «persone assolutamente diverse, unite semmai da una dura posizione antisistema che ha ripreso la sua forza».
Viene rimessa in causa «la legittimità del potere». E il governo si trova davanti a una sfida che sarà il vero terreno di dibattito da qui a maggio, quando ci saranno le elezioni europee «perché dovrà far capire a chi protesta che è comunque preferibile vivere in una democrazia rappresentativa dove il potere deriva da libere elezioni piuttosto che in un democrazia illiberale». Ma attenzione: «Se il malcontento prosegue, gli argomenti del presidente contro le democrazie illiberali versione Orban o Salvini non sarà più ascoltato e la gente dirà: meglio avere un potere d’acquisto più alto in una democrazia illiberale che un potere d’acquisto più basso in una democrazia rappresentativa». Il vero rischio, conclude, è che gli scontenti di oggi decidano di non votare più e si esprimano soltanto per manifestazioni estemporanee. Allora persino Marine sarebbe il passato.
La Le Pen, dal canto suo, osserva e aspetta. Conia un neologismo per definire questo ceto medio-basso arrabbiato, “popolo centrale”. Il popolo centrale «che soffriva in silenzio e non vuole più essere sottomesso».
Anche perché, stando a quando sostiene l’economista e geografo Frédéric Gilli, professore a Sciences Po, la Francia delle periferie e la Francia rurale ha delle potenzialità inesplorate, è assai più vitale dei grandi centri, fa più figli, ha più progetti della stanca Francia metropolitana. E non trova le strutture che la possano aiutare nella sua possibile ascesa. Reti ferroviarie secondarie abbandonate così come le caserme della gendarmeria in provincia, presidi medici che chiudono. Tagli, tagli, tagli di cui Parigi non soffre. Non si spiegherebbe un consenso largo (74 per cento) ai cortei che paralizzano la circolazione, se non fossero comprese e condivise le rivendicazioni. L’automobile è il simbolo del dinamismo, il mezzo obbligatorio in mancanza d’altro, la sola maniera di uscire da un assai poco splendido isolamento.
Di tutto questo dovrebbe tenere conto Emmanuel Macron mentre si appresta ad affrontare sei mesi decisivi non solo per se stesso ma per l’Europa intera. Per risalire la china ha bisogno di un cambio di passo che faccia dimenticare i molti rovesci non solo sul terreno dell’economia. Nel volgere di un’estate è stato travolto dallo scandalo Benalla, il bodyguard personale ripreso dalle tv mentre picchia i manifestanti in un paio di cortei; ha perso tre ministri, il popolarissimo Nicolas Hulot (Ecologia) e l’ex campionessa di scherma Lura Flessel (Sport), oltre, ed è stato l’addio più doloroso, al potente ministro dell’Interno Gérard Collomb, il quale ha pronosticato un possibile rischio di guerra civile perché l’immigrazione ha permesso di costruire “uno Stato nello Stato”. Senza contare che la Procura di Parigi ha appena aperto un’inchiesta su alcune donazioni a “En Marche”.
Eppure 18 mesi fa, nel momento dell’ascesa che sembrava inarrestabile, persino l’Eliseo era considerato per lui stretto. E, dopo un inevitabile secondo mandato, già si favoleggiava del suo destino di presidente di un’Europa riformata, in quanto campione di quel sistema tradizionale che aveva saputo respingere i barbari del sovranismo alle porte. Nel disegno di un’alleanza “da Tsipras a Macron” che dovrebbe sconfiggere le forze eurodistruttrici, era lui l’anello forte. Intanto perché espressione di un Paese-chiave per l’Unione. E poi per l’indubbia speranza che la sua stella all’apparire aveva suscitato nel movimento moderato-progressista.
Per questo le sue difficoltà eccedono la Francia, investono un Continente in cerca d’autore, fanno sprofondare nel timore che la battaglia di maggio contro i nazionalismi sia perduta visto l’annunciato ritiro dal campo dell’altro campionessa dell’europeismo, Angela Merkel. Se non di Giove, Bruxelles avrebbe almeno bisogno che l’ammaccato Emmanuel Macron si rimettesse en marche.