Dai conflitti del Golfo alle stragi dell’Isis: un team di esperti prova a restituire ai morti un’identità. Partendo dalle fosse comuni

Il terreno è ancora bagnato dalla pioggia. Il sole appare per pochi secondi, poi si dilegua. Quando riappare, tutti sembrano subito ridesiderare le nuvole. Il sole primaverile in nord Iraq è caldo e le ore da passare a scavare la terra sono ancora molte. In ginocchio, tra pale, secchi, carriole e teli blu per riparare dall’eventuale pioggia e dagli obiettivi delle macchine fotografiche. All’improvviso, il rumore di un drone comincia a sentirsi da lontano fino a quando si avvicina dall’alto al “sito”. Un uomo dal passo deciso, con la tuta bianca e grossi stivali arancione fosforescente indossati da lui e da tutto il suo team, si allontana verso l’esterno, urlando: «Alt! Fermate quel drone immediatamente! Non si può filmare…questo è il sito di un crimine contro l’umanità!». Queste parole sembrano risuonare in tutta la campagna e far vibrare la terra. Il videomaker col telecomando del drone in mano fa subito marcia indietro e si avvicina per scusarsi. I due si chiariscono in fretta. Ognuno torna al proprio posto. Il lavoro deve continuare. La terra comincia a svelare le ossa. Sono ormai visibili: subito riconoscibili.

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Quell’uomo che ha fatto un po’ la voce grossa è Karim Khan. Avvocato penalista ed esperto internazionale di crimini di guerra e contro l’umanità, Khan è stato impiegato per le Nazioni Unite e alla Corte Penale Internazionale in Bosnia, Cambogia, Liberia, Ruanda; con grande impegno e umiltà, oggi guida il team investigativo delle Nazioni Uniti che indagherà per i prossimi due anni in Iraq i crimini compiuti dall’Isis. «Sono qui per servire, siamo i vostri servitori. Avete aspettato già abbastanza e devo dirvi la verità: dovrete aspettare ancora a lungo», dichiara alla cerimonia di apertura. Al suo fianco, un team internazionale di esperti, dall’Argentina al Libano al Giappone; e il team iracheno, da Baghdad, di antropologi forensi del Dipartimento di medicina legale e del Dipartimento delle fosse comuni della Fondazione dei martiri. Un paio di esperti pure da Erbil, dal Ministero dei Martiri e Anfal della regione autonoma del Kurdistan.

Il sito, sì, è quello di un crimine: siamo a Kocho, il villaggio simbolo del genocidio degli yazidi e luogo di origine del premio Nobel per la Pace Nadia Murad. È la prima delle 202 fosse comuni (finora identificate) a essere scavata, le fosse comuni lasciate da quello che si faceva chiamare “Stato Islamico” ma che senza esitare l’avvocato Karim Khan, britannico di origini pachistane, chiama “Un-Islamic state” perché di musulmano non aveva proprio niente. Attorno un’apparente pace assoluta: il verde, l’aria fresca e la bellezza del Monte Sinjar sullo sfondo che di tanto in tanto viene nascosto dalle nuvole. Un silenzio di campagna che stride amaramente con la terra di fantasmi che da mesi si continua a scavare. Quattro soldati delle Unità di Protezione del Popolo yazida circondano il sito recintato, mentre altri quattro dell’Esercito procedono a sminare lotti di terreno circostanti. Il villaggio, se non fosse per l’andirivieni di familiari, organizzazioni ed istituzioni, è rimasto da allora deserto. I suoi abitanti giacciono, massacrati, sotto la terra.
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«Abbiamo inaugurato il 15 marzo l’apertura della prima fossa a Kocho: da allora ne abbiamo aperte 11», spiega Dhia Kareem, direttore del Dipartimento delle fosse comuni, dal 2008 in prima fila in tutto il paese, «ne avremo per i prossimi anni».

Se 202 sono le fosse comuni degli anni dell’Isis, ancora centinaia sono quelle da scoprire in tutto l’Iraq. Dalla guerra contro l’Iran degli anni ’80, alla campagna genocidaria contro i curdi denominata Anfal, alla prima guerra del Golfo del 1991, passando per la repressione di qualsiasi opposizione al regime di Saddam Hussein, fino all’occupazione americana del 2003 che lo destituì e la guerra civile del 2006 che ne seguì…l’Iraq è tutto da scavare. E non (solo) perché sotto la sua terra ci sono tra i più inestimabili tesori archeologici dell’Antica Mesopotamia: basti pensare che la prima città cosmopolita al mondo dove sono stati incisi i primi articoli di legge, la sumera Ur nel sud dell’Iraq, con la sua imponente Ziggurat, è stata scavata solo al 20%. Ma ci sono centinaia di migliaia di esseri umani da portare alla luce che nel frattempo sono diventate ossa. Tesori, i cui familiari non hanno mai smesso di sperare di poter ritrovare.

Solo da dieci anni un gruppo di instancabili esperti iracheni sta lentamente provando a venire a capo di questa tragedia lunga più di quarant’anni. Non c’è un registro centrale statale, ma la Commissione Internazionale delle persone disperse (Icmp nella sua sigla inglese) stima un minimo di 250.000 scomparsi fino a un massimo di un milione. Un’enormità. Al Dipartimento di medicina legale di Baghdad i medici forensi sono sempre a caccia di Dna dei familiari, per poter poi identificare e dare un nome a quelle ossa. «Dieci anni fa ho lavorato alla mia prima fossa comune in Anbar, erano le fosse degli oppositori del partito Baath dell’ex-dittatore Saddam Hussein», racconta Dhorgham Abdelmajid, oggi responsabile del team che scava. «Da allora ho visto migliaia di resti umani, di soldati e cittadini comuni, di tutte le taglie e appartenenze». Per ogni fossa comune, il Dipartimento apre un dossier con un numero. Giornalmente intervistano familiari di vittime di tutte le epoche e nel database si raccolgono le informazioni sulle vittime, quelle ante-mortem (segni particolari, ferite o altro), fornite dai familiari, e quelle post-mortem, ricavate dalle ossa, dall’evento morte. Si analizzano le ossa (femore e cranio soprattutto), poi si passa al laboratorio del Dna. Per ogni persona scomparsa, il Dipartimento deve possedere per legge il Dna di almeno sei familiari.
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Per il Sinjar, ovvero le fosse comuni degli yazidi, il numero è inferiore a quello necessario: molti familiari sono morti, dispersi o rifugiati all’estero. Per il massacro del campo di addestramento militare Speicher, il più grande massacro di giovani cadetti, invece si è raccolto una quantità di Dna sei volte superiore a quello delle vittime. Fucilati a sangue freddo dall’Isis in due soli giorni, i corpi sono stati gettati nel fiume Tigri o sotterrati in fosse comuni: 1935 persone secondo i dati del ministero della Difesa, 1200 i corpi finora identificati e restituiti alle famiglie. «Abbiamo lavorato anche d’estate: dalle 6 del pomeriggio alle 2 di notte perché di giorno le temperature raggiungono i 50 gradi», ricorda Dhorgham. «Sento che è più un lavoro umanitario che da impiegato».

Ma il Dipartimento non si occupa soltanto delle fosse comuni. Negli ultimi anni, molti bambini e bambine, soprattutto yazidi rapiti dall’Isis, che sono riusciti a sopravvivere, sono stati portati a Baghdad per risalire alla famiglia di origine che ne aveva denunciato la scomparsa. Molti sono stati usati come bambini-soldato dai miliziani estremisti e tanti non ricordano più nulla della loro vita precedente. Si conta sulla Medicina legale anche per rimettere a posto “i pezzi” di ogni grande attentato come l’esplosione di un camion bomba del luglio 2016 in centro a Baghdad che uccise 340 persone in un istante. «Ogni massacro, ogni fossa comune, ogni persona, ogni ossa… è un lavoro diverso da fare», racconta Dottor Zaid Ali Abbas, capo del Dipartimento. «Non possiamo quantificare i giorni di un lavoro: a volte per un massacro ci vogliono anni per tutti i pezzi di un solo corpo che sono esplosi. Idem per una fossa comune: dipende dagli strati che ci sono, se è rimasta carne o solo ossa, dagli anni o decenni passati, dalle testimonianze raccolte».
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Le testimonianze dei sopravvissuti sono un elemento fondamentale delle indagini, le guidano, insieme alla raccolta delle prove: capelli, proiettili, vestiti nel caso delle fosse comuni. «Raccogliamo e seguiamo le prove, vediamo dove portano», afferma Karim Khan. «Non c’è un programma prestabilito né un unico procedimento: come un buon sarto italiano che deve creare un vestito su misura, così il nostro approccio si adatta al crimine e al contesto».

Al suo fianco, Luis Fondebrider, antropologo forense che ha iniziato a lavorare negli anni ’80 alla ricerca dei desaparecidos del suo paese d’origine, l’Argentina, e che da anni forma il team in Iraq. «Seguiamo un metodo multidisciplinare unendo la medicina forense alla genetica ed altre discipline», spiega. «Ma soprattutto da anni lavoriamo a fianco delle famiglie e degli avvocati per provare a restituire giustizia e pace dopo la violenza di un conflitto. Il processo di esumazione è solo uno step dell’indagine». Luis parla poco di sé: ma è una leggenda. Il team iracheno senza di lui non muove un passo.
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Al momento a Baghdad, nel deposito di Medicina Legale, sono riposti alcuni casi della Prima Guerra del Golfo (1991). «Non sono andata a Kocho insieme al team perché dovevamo chiudere i dossier di una fossa al confine col Kuwait», spiega Yasmine Mundher, del reparto di analisi dei muscoli. «E dobbiamo fare spazio, perché arriveranno tanti nuovi casi dal Sinjar». Instancabile coordinatrice al fianco del dottor Zaid, Yasmine dedica la sua vita a questo lavoro senza sosta: «So che il nostro compito non è solo per l’Iraq e le sue famiglie, ma per il mondo intero». Concorda Karim Khan: «L’umanità non ha raggiunto quel grado di maturità tale da non compiere questi crimini orrendi. Ma col governo e il team iracheno stiamo lavorando bene ed è essenziale per ricostruire una società».

L’odore dei cadaveri si sente nell’aria; sembra che sia stato disperso dalle nuvole, dal vento, dalla pioggia… dal tempo. Ma è solo un’impressione. Si sente nelle celle frigo del Dipartimento di medicina legale a Baghdad come dai campi tra le fosse comuni appena aperte in Sinjar. Quando i grandi sacchi neri contenenti i corpi, o meglio le ossa dello scheletro che lo compongono, vengono deposti nel camion-frigorifero diretto a Baghdad, si sente di nuovo forte. L’odore del crimine. A lato della fossa, il chiacchiericcio di chi osserva, chi fotografa, chi cammina nervosamente fumando in continuazione, chi scrive, chi piange.
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Un senso di sollievo unisce il team di esperti che ha finito il lavoro ai rappresentanti della comunità locale, presenti per giorni interi a documentare il processo di esumazione delle salme. La terra è stata scoperchiata, le ossa vanno a Baghdad, la fossa diventerà un luogo di memoria. Si aspetteranno le analisi e le identificazioni, continuerà l’indagine. «Il mondo intero deve sapere», conclude Dhorgham, «e da qui cureremo insieme questa ferita dell’umanità».