Sguazza nella zona grigia della propaganda, fornisce slogan populisti allo zar del Cremlino e ai suoi seguaci all’estero. Ecco chi è veramente

L’Europa ha molti nemici - più di quanti non si voglia credere. Proprio questo è emerso con chiarezza negli ultimi anni. Talvolta è bene conoscerli, anche per capire meglio i pericoli che incombono su tutto ciò che fino a ieri sembrava fosse certo, ovvio, condiviso: Europa, democrazia, unione dei popoli.

Quando in Germania, all’inizio del 2016, è stato pubblicato “Mein Kampf” di Adolf Hitler, che fino allora era inaccessibile perché sotto censura, molti ritennero che l’opinione pubblica fosse ormai immunizzata contro quel veleno. Tuttavia, mentre il nazismo sembra diventato un’emergenza, c’è da chiedersi oggi se quelle difese non siano state sopravvalutate. Il che non vuol dire in nessun modo ricorrere alla censura. Forse è tempo, però, di non minimizzare i rischi e di sondare quell’ideologia della nuova destra che un pregiudizio frettoloso, e forse in questo momento controproducente, vorrebbe ridurre a non-pensiero. Tanto più che il suo influsso è devastante.

Chi è allora il singolare personaggio - lunga barba semincolta e sguardo misticheggiante - invitato sia a convegni leghisti sia a conferenze organizzate da neofascisti, e immortalato davanti al Metropol di Mosca accanto a Gianluca Savoini? È Aleksandr Gel’evic Dugin, il “filosofo dei sovranisti”, il “Rasputin del Cremlino”, lo strenuo ammiratore di Matteo Salvini, che considera il politico del futuro. Se il suo nome è venuto alla ribalta della cronaca italiana per la vicenda dei fondi russi alla Lega, di lui si parla da tempo in Francia, per i suoi legami con il Fronte Nazionale, e in Germania, dove è ritenuto uno degli ispiratori del partito di estrema destra Alternative für Deutschland.

Definirlo “filosofo” sarebbe un insulto alla filosofia. Alcuni preferiscono perciò chiamarlo ideologo. Claudio Gatti lo annovera tra i «demoni di Salvini». C’è qualcosa di mefistofelico e minaccioso nella sua figura. Dugin non uccide, come il suprematista Breivik; piuttosto invita a uccidere. È avvenuto nel 2014, durante l’annessione russa della Crimea, quando lanciò un appello sanguinario al «genocidio»; l’effetto fu un violento scontro a Odessa tra manifestanti pro-ucraini e pro-russi che provocò quaranta morti. Anche per Mosca fu troppo.

Dopo una raccolta di firme degli studenti, nell’imbarazzo delle autorità, non gli fu prolungato il contratto all’Università Lomonosov, dove dal 2009 aveva insegnato Sociologia delle relazioni internazionali. Non si deve però credere che sia stato relegato in un angolo e che il suo influsso sia stato sminuito. Al contrario!

Dugin continua a sguazzare nella zona grigia della propaganda mantenendo il suo ruolo non solo come leader della nuova destra, ma anche come accorto tessitore di una rete geopolitica che ha al centro la Russia. Fa parte di quest’incessante attività il sostegno ai partiti e ai movimenti populisti in ogni parte d’Europa. È lui a intrecciare i legami politico-ideologici di quella paradossale alleanza dei sovranisti sugellata a Milano nel 2016.

Se prima le idee di Dugin potevano essere ritenute la dottrina esoterica di una frangia folkloristica, oggi anche oltreoceano gli occhi sono puntati sul suo “euroasiatismo” che la storica Marlène Laurelle ha definito una «sintesi restaurativa di motivi antioccidentali e politiche autoritarie».

Per il compito che Dugin assegna alla Germania vivo è l’interesse dei media tedeschi che si interrogano in particolare sul suo nesso con Putin. In un’intervista pubblicata sullo Spiegel il 14 luglio 2014, pur negando ogni influsso, Dugin ha lasciato in forse la sua funzione, senza nascondere però il suo giudizio. «C’è un Putin lunare e un Putin solare (…). È il Putin solare quello che mi piace. Il Putin lunare è quello degli accordi, della cooperazione, delle forniture di gas». E ancora: «Putin è tutto, Putin è insostituibile». Senza sopravvalutarne l’importanza, sembra indubbio - come ha sottolineato in un libro edito da Suhrkamp il politologo tedesco Claus Leggewie - che Dugin abbia fornito al Cremlino l’indispensabile terreno ideologico alla cui fraseologia attingere, per poi prendere opportunisticamente le distanze. Lo confermano gli espliciti riferimenti alle parole d’ordine dell’ideologo - come Novorossia! (Nuova Russia) - anche in popolari show televisivi. D’altronde il nuovo corso proclamato da Putin nel 2012 guarda a una Russia, bastione dell’Europa cristiana, contro la decadenza occidentale e l’egemonia americana.

Si sa che la Russia è stata sempre combattuta tra la tentazione di avvicinarsi al modello occidentale, di cui fu protagonista Pietro il grande, e il desiderio di volgersi invece a oriente rimarcando, con una ostinata slavofilia, testimoniata nell’opera di Dostoevskij, lo scarto insormontabile tra la democrazia liberale e il popolo russo. Se durante la Rivoluzione d’ottobre, per via dell’internazionalismo, prevalse l’apertura, già Stalin cambiò rotta. Ma la fine dell’impero sovietico segnò il vero punto di svolta. In quella situazione caotica andò emergendo la corrente nazionalistica che aveva covato sotto la cenere.

In quegli anni ha inizio l’oscura carriera di Dugin che, dopo essere stato membro del movimento neonazista Ordine nero delle SS, aderisce al gruppo antisemita Pamyat. Nel 1993 fonda il Partito Nazional-bolscevico. Qualche anno più tardi, nel 2002, tenta ancora, dando vita al Partito euroasiatico. Si tratta di insuccessi, ma solo in apparenza. Vestendo l’abito del professore per rendersi presentabile, Dugin ha modo di introdursi nel sottobosco della politica e di avvicinarsi alla sfera del potere diventando consigliere di Gennadiy Seleznyov, presidente della Duma. Soprattutto riesce a cogliere lo spirito del tempo delineando il progetto neoimperiale “Eurasia”.

Il pensiero di fondo è sganciare l’Europa dall’Occidente politico-culturale, sottraendola all’egemonia americana.
La visione è quella di un territorio che si estende da Lisbona a Vladivostok e di un complesso di popoli organizzati nella forma di un impero. In un mondo globalizzato, liquido e multilaterale, Dugin vede nei “poli” la salvezza. L’Eurasia rappresenterebbe un polo alternativo e forse in futuro dominante. Accanto alla Nuova Russia, e sotto le sue ali protettive, riemergerebbe un’Europa europea, dove la Germania, libera e indipendente, non più ridotta, come oggi, a «un grande lager» americano, potrebbe riprendere il ruolo di guida. Non è difficile scorgere in questo auspicato patto russo-tedesco una ripresa del nazional-bolscevismo di Weimar.

Dugin ha per così dire l’abilità di attingere alle dottrine della «rivoluzione conservatrice», da Ernst Jünger a Martin Heidegger, a Julius Evola (di quest’ultimo si sente quasi un diretto erede), coniugandole con quelle della nuova destra, in particolare di Alain De Benoist, per tradurle nell’attualità. Da Carl Schmitt riprende l’idea di un conflitto insanabile tra le potenze di mare (Usa e Gran Bretagna) e quelle di terra (Germania e Russia), conflitto che non si è ancora risolto e che, anzi, esploderà nel futuro. L’enorme risentimento verso l’Occidente trova sfogo in una concezione complottista che cerca il burattinaio, che sia Soros, lo spirito ebraico o il sionista di turno. Con destrezza, imitata anche altrove, evita di passare per razzista sostituendo “razza” con “cultura”, “purezza” con “autenticità”. Le commistioni non sono auspicabili. Inutile poi sottolineare la supremazia dei bianchi.

Ma il successo è legato alla Quarta teoria politica, un libro tradotto in molte lingue, che contiene - come l’autore suggerisce - una «metafisica del populismo». Né di destra, né di sinistra. Fascismo e comunismo si sono estinti; delle tre teorie scaturite dalla modernità solo il liberalismo si è conservato degenerando tuttavia nella società del mercato globale. L’alternativa è quella «vicinanza al popolo» che deve aggirare ogni scoglio della democrazia burocratica.

Non sorprende che Dugin sia ormai visto come l’eminenza grigia che ispira la politica russa e trova consenso non solo in patria, ma anche all’estero, dove non si può sottovalutare il suo ruolo nel sostegno ai partiti sovranisti.

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