Dopo la strage, l'Iran non sarà più lo stesso

di Luciana Borsatti, foto di Linda Dorigo   10 dicembre 2019

  • linkedintwitterfacebook
iran2-jpg

Sei giorni di proteste, oltre 200 morti, 7 mila arresti. Poi il silenzio. Ma nel Paese degli Ayatollah qualcosa si è spezzato per sempre (Foto di Linda Dorigo)

iran2-jpg
Almeno sei giorni di proteste, cinque di oscuramento di internet, notizie e video di violenze e uccisioni di manifestanti postati con difficoltà sui social e rilanciati da media mai teneri con la Repubblica Islamica, cifre e comunicazioni ufficiali che tardano ad arrivare, e quando lo fanno smentiscono o ridimensionano quando già si percepiva come una pesante cappa di tragedia calata sull’Iran. E dunque la prima domanda che sorge è: ma l’Iran sarà mai più lo stesso? Potrà esserlo, alla fine della tragica conta dei morti che Amnesty International ha portato in sette giorni da 143 a oltre 200, mentre un deputato della Commissione parlamentare per la Sicurezza nazionale ha parlato di 7 mila arresti in tutto il Paese?

Certo l’Iran non sarà più lo stesso per i familiari delle vittime, quale ne sia il numero effettivo; né per coloro la cui vita resterà segnata dal carcere o da una condanna; o per chi ha assistito attonito agli spari di agenti in divisa e in borghese contro manifestanti disarmati, ha visto banche distrutte (oltre 700 secondo stime ufficiali) e pompe di benzina incendiate, ha raccontato di misteriosi figuri mascherati e armati di mazze il cui solo scopo era distruggere senza nemmeno urlare uno slogan.
Ma da dove è cominciata questa crisi, tanto grave da far imporre quell’inedito oscuramente totale di internet reso possibile sì dall’avvenuta creazione di un autarchico web nazionale, ma certo favorito anche dalla chiusura di qualunque canale finanziario con l’estero, effetto delle più pesanti sanzioni Usa nella storia della Repubblica Islamica?

Se il malcontento covava da tempo tra gli strati sociali impoveriti dalle sanzioni, ma anche da cronici problemi strutturali dell’economia, la miccia è stata l’annuncio, nella notte di giovedì 14 novembre e dunque in pieno weekend, che il prezzo della benzina sarebbe aumentato del 50% per i primi 60 litri al mese, e del 300% per i successivi. Le autorità non ritenevano infatti più compatibile con i conti dello stato sussidi che facevano pagare solo una decina di centesimi di euro per un litro di benzina a chiunque, che guidasse una Maserati tra le ricche residenze del nord di Teheran oppure solo una vecchia utilitaria di marca francese per arrotondare i guadagni come tassista improvvisato grazie a Snapp, la Uber locale. Ma bisognava anche fermare il contrabbando di benzina all’estero e ridurre gli eccessi del consumo interno. Il denaro risparmiato sarebbe subito stato trasferito in forma di sussidi diretti a milioni di iraniani bisognosi.

A prendere la decisione non il Parlamento, dove non sono mancate proteste per l’esautoramento, ma un comitato economico in cui siedono il presidente della stessa Assemblea, Ali Lariani, il capo dell’esecutivo Hassan Rouhani e il capo della magistratura Ebrahim Raisi. Un comitato ristretto, ma rappresentativo dei tre poteri dello stato, sebbene solo i primi due siano organi elettivi (in un complesso ordinamento costituzionale che affida però al non elettivo Consiglio dei Guardiani l’approvazione delle candidature ) e il terzo invece emanazione della Guida suprema. Sulla opportunità e le modalità dell’annuncio di tale decisione le critiche e dietrologie si sprecano – anche se intanto il ministro del Petrolio è fra i tre a rischio di impeachment in Parlamento, mentre un quarto ha già dato le dimissioni .
iran-jpg

Ma non è tanto questo il punto. Il punto è che l’improvviso rincaro è stato la goccia che ha fatto traboccare un vaso già colmo e per due ordini di motivi. Primo, un’economia strozzata dalla corruzione e dai potentati oligarchici delle Fondazioni religiose e di tanti esponenti dei Pasdaran (le Guardie della rivoluzione fondate nel 1979 come corpo militare) prestati all’imprenditoria; secondo, gli effetti delle durissime sanzioni imposte dalla Casa Bianca dopo l’uscita unilaterale dall’accordo sul nucleare dal presidente Trump - il quale puntualmente non ha fatto mancare la sua solidarietà ai manifestanti. Un concorso di cause che ha fatto precipitare di oltre 9 punti, nelle previsioni del Fondo monetario internazionale, le prospettive di crescita dell’economia iraniana, che solo tre anni fa si preparava a massicci investimenti europei e anche italiani. Ma in cui un ruolo cruciale è certo stato svolto dal crollo dell’export del petrolio, passato da 2,8 milioni di barili al giorno a meno di 500 mila. Tanto che è legittimo chiedersi in quale misura le sanzioni Usa, tese a colpire anche chi in Europa continui a fare affari con l’Iran, abbiano appunto determinato quest’ultima ondata di proteste. E quali siano anche le responsabilità dell’Europa, che non è ancora riuscita ad affrancarsi dalle sanzioni secondarie che le hanno legato le mani, fallendo finora nel rendere operativa la società Instex, stratagemma per consentire l’interscambio varato da Francia, Gran Bretagna e Germania (cui si sono appena aggiunti altri sei paesi Ue) . E quanto, infine, la politica di “massima pressione” sull’Iran della Casa Bianca abbia contribuito ad erodere il consenso interno verso la cosiddetta ala ‘moderata’ della dirigenza iraniana, quella di Rouhani e del suo ministro degli Esteri Javad Zarif, che sull’accordo con l’Occidente avevano scommesso, nonostante le resistenze degli ultraconservatori, e quella scommessa hanno perso. Venendo così travolti dalla rabbia diffusa verso tutto l’establishment che si sprigionava nelle strade di un centinaio di città del Paese.

Specularmente, la reazione alle proteste ha ridotto al minimo anche le differenze tra il fronte di Rouhani e quello che si riconosce nella Guida Ali Khamenei, meno carismatico erede della carica del fondatore della Repubblica Islamica Ruhollah Khomeini. E dunque, da parte ufficiale, le proteste sono state considerate “atti” di mercenari ” e “teppisti” da ben due anni al soldo degli Usa, secondo quanto dichiarato il 27 novembre da Rouhani, secondo il quale la repressione è stata «una grande vittoria nazionale contro le superpotenze». Toni simili a quelli usati da Khamenei, secondo cui una «grande cospirazione» guidata dagli Usa è stata sventata dai Basiji, corpo dei volontari dei Pasdaran, i cui vertici avevano da parte loro definito le manifestazioni una «guerra mondiale a pieno titolo contro il sistema», ingaggiata da Israele, Usa e Arabia Saudita. E condotta, sempre nella lettura ufficiale, da agenti infiltrati della Cia e dei Mojahedin del Popolo (Mko), determinati oppositori della Repubblica Islamica, alleati dell’Iraq nella guerra degli anni Ottanta e ora capaci di una grande influenza sia in Europa che negli Stati Uniti.

Reazioni da scontro frontale, dunque, ma presto mitigate: con Rouhani ad auspicare la libertà per gli arrestati innocenti e a offrire nuovi negoziati con le potenze del 5+1, ma solo a sanzioni Usa rimosse. Sul fronte opposto parlano i video e le testimonianze raccolte dai media occidentali. E che raccontano non solo di giovani disoccupati colpiti da agenti in uniforme e in borghese, ma anche di veri e propri eccidi, come quello che sarebbe avvenuto a Mahshahr, città a maggioranza araba nella regione di confine del Khuzestan. Qui membri dei Pasdaran avrebbero ucciso in un campo, secondo le testimonianze raccolte dal New York Times ma poi ridimensionate da fonti ufficiali, da 40 a 100 manifestanti, quasi tutti giovani e disarmati. Una sorte la loro, che potrebbe assumere un’ulteriore inquietante valenza se si dovesse associare a rivendicazioni etniche se non separatistiche. Ma che intanto conferma come alcune aree periferiche ed economicamente marginali siano state quelle a maggior concentrazione di vittime, come appunto il Khuzestan e le regioni curde. Mentre tra le vittime - per le quali in vari casi i familiari avrebbero dovuto pagare la restituzione della salma e celebrare in modo riservato i funerali - ve ne sono alcune che acquistano un volto se non un’iconica identità. Come nel caso di Pouya Bakhtiari, un 27enne ucciso a Karaj, non distante da Teheran, mentre partecipava alle manifestazioni insieme alla madre e alla sorella. «Ho combattuto per cinque anni per respingere il nemico dalla patria» durante la guerra Iran-Iraq, ha raccontato il padre a Radio Farda - e ora hanno ucciso mio figlio solo perché protestava contro gli aumenti della benzina». «Mio figlio amava la poesia persiana e la storia dell’Iran - ha aggiunto - e nel frattempo progettava di emigrare in Canada». Quasi il ritratto di una intera generazione, quello di Pouya: amore per la patria e per quella poesia tanto diffusa anche fra i giovani, e insieme la consapevolezza che non vi è futuro se non all’estero. Pouya potrebbe ora diventare un’icona grazie anche al coraggio di un padre che ne parla al mondo rivendicando il suo passato di combattente. Dei caduti e dei veterani di quella guerra la Repubblica Islamica ha fatto martiri ed eroi, come può ora ucciderne i figli?

Contro quanto accaduto da quel venerdì nero anche il mondo del cinema si è mobilitato per i manifestanti uccisi e in difesa dei diritti, con una petizione firmata da registi internazionalmente noti come Ashgar Fahradi, Jafar Panahi e Rakhshan Bani Etemad.

E per Azadeh Pourzand, ricercatrice nel campo dei diritti umani basata a Washington - e che questa settimana sarà in Italia con Amnesty International - le ultime proteste hanno portato a ridurre le divisioni interne all’élite dirigente fino ad condivisa politica di «massima repressione». Parole dure quelle di Azadeh Pourzand, figlia di un giornalista dissidente che si suicidò nel 2011 mentre era agli arresti domiciliari - che sembrano chiudere ad ogni possibilità di distinguo. Quanto alla commissione parlamentare di inchiesta invocata nel parlamento iraniano da alcuni parlamentari, come la riformista Parvaneh Salahshouri, per la ricercatrice «non avrebbe l’indipendenza necessaria per rimanere oggettiva», mentre sarebbe urgente piuttosto «un comitato di esperti indipendenti» delle Nazioni Unite. Difficile immaginare, per chi conosca il senso di orgoglio nazionale che guida la dirigenza iraniana, che una condizione del genere possa essere accettata.

Ma che dal 15 novembre a oggi qualcosa si sia inevitabilmente spezzato, anche per chi ha creduto nella dirigenza moderata di Rouhani come nell’unico ponte realisticamente possibile tra l’Iran e il mondo, lo conferma una professionista quarantenne iraniana che preferisce non essere identificata. «Rouhani e Zarif mi sembravano gli unici interlocutori possibili - racconta - ma ora hanno commesso errori terribili, hanno superato tutti i limiti. Nessun governo ha tradito le nostre speranze come il loro. Ho sempre creduto nella diplomazia come unico strumento per non consegnare l’Iran agli ultraconservatori e ai guerrafondai, ma la ferita ormai è troppo aperta. Prima di tutto, ora l’Europa deve chiedere chiarezza sui diritti umani, con una commissione di osservatori internazionali».

«Le elezioni parlamentari di febbraio? Dopo quanto è accaduto - conclude - in pochi andranno a votare. Forse le elezioni non ci saranno proprio, ci sarà un colpo di stato militare prima».