C'è un vecchio comunista a difendere la casa in cui Stalin preparava la Rivoluzione
Un appartamento di periferia a Tblisi. Dove il giovane Iosif stampava di nascosto i volantini bolscevichi. Oggi custodito da un nostalgico che regala la Pravda ai visitatori
Un sogno magico e surreale, nel cuore del Caucaso, al confine tra Europa e Asia. Un vortice di secoli e tradizioni che si affastellano l’una sull’altra, in un moto ascensionale che ci porta diritti al 2019, tra architetture che recano ancora tracce archeologiche della sua fondazione, nel V secolo d. C., e poi attraverso i secoli, sempre più vorticosamente prossimi al presente, superate tracce del mondo romano, protocristiano e arabo e percorse soverchianti realtà di dominazione delle complesse e impermanenti realtà del secolo scorso, delle sue telluriche scosse storiche.
Siamo a Tblisi, capitale della Georgia, città in cui il contrasto domina come in un caleidoscopio visuale martellante agli occhi dello stupefatto straniero. Una striscia di terra millenaria tra la Russia, l’Armenia, l’Azerbaigian, la Turchia e con uno sfogo sul Mar Nero.
Ognuno di questi confini ci racconta la danza dei secoli e dei popoli che la abitano o l’hanno attraversata, e ci dice di guerre infinite e del sogno di trovarsi in un presente in cui definirsi. Sullo stesso parallelo, il quarantunesimo, che è poi quello di Roma, di Barcellona e di New York.
Tra le sue strade una moltitudine di chiese cristiane di rito ortodosso, futuristiche strutture architettoniche che ricordano quelle degli slanci verso il futuro di aree di metropoli globalistiche come Abu Dhabi o City Life a Milano, e placidi quartieri rassomiglianti a cittadine degli Stati interni degli Usa e una teoria più o meno inalterata (perché spesso “corretta” negli ultimi decenni), di colossali quartieri sovietici. Un piano regolatore deliziosamente impazzito. Tutto tra microscopiche edicole dove viene, in piena tradizione orientale, cotto e venduto il pane tandur, tra catene di supermercati ben conosciute da noi e piccoli e deliziosi ristoranti tipici dove secoli di tradizioni presentano specialità gastronomiche a base di un’infinità di erbe e spezie arricchite da una potente carta dei vini locali, tra i più forti collanti di questa città dove si susseguono una quantità per noi inimmaginabile di statue di artisti, poeti, musicisti.
Tblisi ama l’arte e lo manifesta immediatamente, con la quantità di monumenti ai suoi cantori (è certo più facile trovare, nei suoi innumerevoli parchi, raffigurazione di poeti che non di personaggi storici, quasi rimossi dalla coscienza). Nel centro di questa piccola e deliziosa metropoli il Teatro Nazionale, vicino all’attuale Parlamento, è uno dei luoghi di ritrovo più frequentati. Abbondano i cinema ed esiste un vero e inaspettato culto per il grande cinema europeo, specialmente quello italiano: poster di film di Fellini, Antonioni, Visconti, De Sica fanno bella mostra di sé un po’ ovunque, ed è più facile trovare qui esperti di Tonino Guerra che non da noi. Di tutto questo ne è felice conseguenza il vivacissimo nuovo cinema georgiano, in cui la matrice del nostro neorealismo è fortemente presente.
Ma la Georgia è anche la terra in cui pullulano le contraddizioni di una libertà conquistata da troppo poco, dopo le dominazioni zariste e quella dell’Unione sovietica (per dire solo delle ultime), di cui ha fatto parte fino al suo disfacimento. La piccola e orgogliosa Georgia, in un contrasto mai finito con quanto dell’eredità sovietica rimane, e che concretamente si manifesta con le continue, odierne pressioni della Russia, vive in una governance iperliberista che cozza con il simbolo dell’unità nazionale, la rigida chiesa ortodossa, con falle giuridiche a cui si ripara con la fantasia se non, purtroppo, con la violenza.
Terra in questo di contraddizioni plurime, ha ad esempio come servizio taxi un partito politico registrato come Chiesa, i cui preti sono i tassisti stessi, tenuti a trasformare le corse in assai laiche esposizioni del concetto di libertà, perno del loro credo. In pratica, un viaggio in taxi si configura come sottospecie di rito religioso in cui viene spiegato il più fantomatico e inesorabile fantasma della vita sociale: la Libertà. E non solo: il sindacato o, meglio, il Partito o meglio ancora, la Chiesa dei tassisti, a cui per aderire basta versare una piccola quota annua, permette ai suoi iscritti, visto il suo statuto ultimo di Chiesa, di saltare il servizio militare, obbligatorio per tutti tranne che per gli ecclesiastici. Mentre la Chiesa, quella ufficiale, cristiano ortodossa, si affianca al potere politico sfoderando tutta la sua ben poco cristiana, oggettiva potenza: è stato così ad esempio che cinque anni fa, il primo tentativo di manifestazione contro l’omofobia, in centro Tblisi, si è risolto in una fitta sassaiola scagliata dai preti stessi contro lo sparuto gruppo dei manifestanti, salvati in extremis da Croce Rossa e polizia locale.
Ma Soso, di tutto questo, non sa nulla.
Soso è l’omonimo di Lui. Lui, in Georgia, è Iosif Vissarionovic Džugašvili, meglio noto come Josif Stalin, abbreviato, affettuosamente, in Soso. Nato a Gori, molto più a Nord di Tblisi, Stalin è indubbiamente il Fantasma, per i georgiani, della loro storia. Al contempo il più celebre e il più odiato dei suoi figli, evoca le purghe di cui proprio la sua terra fu, ai tempi del suo fulgore mondiale, oggetto.
Soso è anche il soprannome di un anziano fedelissimo al dogma comunista che a Tblisi custodisce un non-museo di Stalin di cui in realtà il maggior motivo d’attrazione è proprio lui, l’anziano. Ma sbrogliamo la matassa: in una via periferica della capitale troviamo un’anonima abitazione in cui un giovanissimo Stalin stampava i primi volantini inneggianti al bolscevismo. Una sofisticata, per i tempi, macchina per la stampa, nascosta dentro un pozzo fu, quindi, per un frammento di secolo, il centro della propaganda di una delle più deflagranti rivoluzioni dell’umanità. Il tutto, camuffato da piccola residenza di due anziane signore che in realtà erano “avanguardie” della futura Urss. «Quella piccola residenza era invece la centrale operativa di Stalin» , racconta Soso (quello attuale) conducendovici commosso.
Soso , l’anziano, ha un cappello militare sovietico e per il resto appare piuttosto malandato. Gli cadono i pantaloni e non ce la fanno, a non volergli bene, gli abitanti del quartiere, allo stralunato Soso. Così, vecchio, dolcissimo sopravvissuto a un sogno guasto, Soso accoglie entusiasta chiunque vada a fargli visita, mostrandogli le bellezze del “suo” museo, che si apre con una porta nera con in mezzo falce e martello concepita da lui in persona anni fa. Vi troviamo il lettino in cui dormiva Stalin giovane, il telefono di Stalin giovane, una caterva di libri appartenuti a Stalin (giovane!) e riproduzioni di foto di Stalin, più o meno giovane. Qua e là, busti di Lenin e feticci misti del Comunismo, come il pannello murale dell’Eurasia (Soso non ne ricorda la provenienza) che, schiacciato un apposito bottone, segnala i luoghi in cui la rivoluzione stava, in un certo mitico anno, attecchendo.
Soso è piuttosto vago nelle sue descrizioni: a volte ha delle grosse lacune illustrando quanto più che un museo sembra un vecchio deposito. Ma si esalta quando dal piccolo edificio ci conduce, attraverso una traballante scala nel buio (vietatissima a chi non sia in buona forma fisica) nel corridoio che porta alla stanza nascosta dove è possibile ammirare la stampatrice di Soso (l’altro, quello che dominò mezzo mondo per decenni). Lì, in tutto il suo splendore, completamente arrugginita, la prima macchina di propaganda comunista. La sua storia è piuttosto rocambolesca. Scoperta dalla polizia zarista, venne sequestrata e smontata pezzo per pezzo per poi essere ricollocata e rimontata, dopo il 1919, dove si trovava e si trova. Stampava un foglio alla volta, ma era la promessa dei Soviet e dell’elettrificazione della Russia e del suo impero di Acciaio (“Stalin”, appunto) che Soso accarezza come un figlio, o un saggio nonno di famiglia. Una famiglia costituita da lui e da chi va a trovarlo. Soso non vuole soldi.
A chi gli fa un’offerta dona una copia anastatica della Pravda ma lo fa anche con chi non gli dà nulla, così come regala, a chi gli sembra ancora capire la sacralità della causa comunista, vecchi libri di Stalin. O su Stalin. Dona pezzi di un passato che per lui è l’unico presente. Destinato alla demolizione, il governo attuale ha inventato una soluzione per non spezzare del tutto il sogno di Soso. Il “suo” museo diventerà un generico Museo della stampa, con pezzo forte la stampatrice che Soso ha custodito fino ad oggi.
Soso potrà rimanere. Gli faranno probabilmente togliere il cappello sovietico. Gli sistemeranno i pantaloni. Il suo sogno morirà lentamente, ma con dignità, assieme a lui. Come la Storia, come Tblisi che ne reca le tracce, cangiando.