Madame Diouf ha perso il figlio in mare. Da allora ha iniziato la sua battaglia, creando un’associazione di donne che va su e giù per il Paese a raccontare ai ragazzi la verità sui viaggi verso l’Europa

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Munita di pennarelli colorati, Yayi Bayam Diouf traccia i contorni dell’Europa e dell’Africa sulla lavagna, mentre gli occhi dei bambini seguono attenti i suoi movimenti. «Chi di voi mi sa dire dov’è il Mediterraneo?», chiede. Un bambino alza la mano: «Il Mediterraneo è il posto in cui è seppellito mio padre».

Diouf è la fondatrice del Collettivo delle donne senegalesi contro l’emigrazione irregolare e sta facendo il giro delle scuole elementari della periferia di Dakar per parlare di emigrazione. «Quel bambino ha ragione», ci dice dopo la sua lezione, «eppure un tempo il Mediterraneo era un ponte tra noi e voi. Ora ci dicono “no, non muovetevi, restate lì”, così per andare in Europa, i ragazzi devono imboccare le vie più pericolose».

Da Thiaroye, cittadina storica senegalese affacciata sul mare alla periferia di Dakar, negli ultimi anni sono partiti centinaia di ragazzi in cerca di fortuna. Sono quasi tutti scomparsi in mare: alcuni di loro sulla rotta per Lampedusa, dopo aver preso la via del deserto fino alla Libia, altri nell’Oceano, a largo delle Canarie. Nel 2005, in piena “crisi delle piroghe”, anche Yayi Bayam Diouf ha perso il suo unico figlio mentre cercava di raggiungere la Spagna. Dopo la tragedia, ha deciso di dedicare la sua vita a informare i ragazzi sui rischi che corrono nel partire. È andata casa per casa a tirare fuori dalle quattro mura le altri madri in lutto e le ha convinte a unirsi, per provare a fermare la strage dei ragazzi. La risposta della comunità all’inizio è stata faticosa. «Alcune donne mi hanno detto di no, perché non avevano l’autorizzazione del marito», dice. Così Diouf per cambiare le cose ha iniziato cambiando sé stessa.

Nata in una comunità di pescatori, Madame non si è più accontentata di raccogliere il pesce che cade dai cesti del pescato sulla spiaggia, come fanno le altre donne. A 57 anni, è diventata la prima pescatrice di Thiaroye-sur-Mer. «Dovevo dimostrare che una donna può fare tutto e guadagnarsi da vivere da sola, non ci sono lavori riservati agli uomini», spiega Diouf. Da allora è salita di molto nella gerarchia sociale, fino a diventare la vice-presidente del Consiglio degli Uomini di Thiaroye. Quando le altre donne hanno visto che essere indipendenti era possibile, hanno creato con lei il Centro di formazione professionale delle donne e dei giovani di Thiaroye.

Quando le ragazze arrivano al Centro, Madame le organizza in unità di lavoro. «Il male va eliminato alla radice», dice convinta, guidandoci nelle stanze di uno scalcinato edificio di due piani, che ospita anche il quartier generale del Collettivo delle donne contro l’emigrazione irregolare.

All’entrata del Centro c’è un patio e a fianco uno sportello, dove due maman prendono appuntamenti al telefono, sfogliano carte e accolgono i ragazzi che vengono a chiedere informazioni su come emigrare regolarmente. Nella stanza accanto, dietro la porta, si apre uno spazio con diversi scaffali. A colorarli ci sono tante saponette in fila, quadrate e tutte rigorosamente “bio”. «Sono fatte con olio di baobab ed essenze di frutta e piante», spiega Madame Diouf. Qui le donne fanno la trasformazione del sapone, altre lo commerciano. Una rampa di scala conduce ai laboratori di sartoria, con macchine Singer e stoffe.

Accanto c’è la cucina, dove attorno a un tavolo ritroviamo otto ragazze con il cappello da chef, tutte intente a impastare e sfornare biscotti. Hanno tra i diciassette e i diciotto anni, ognuna di loro ha una storia di maltrattamenti alle spalle. Tutte sembrano molto fiere delle teglie che hanno sotto gli occhi. «Vogliamo rimanere qui a Thiaroye e aprire una pasticceria», raccontano timidamente, una completando la frase dell’altra. Dopo essersi conosciute al centro di formazione, le ragazze hanno deciso di mettersi insieme per aprire una micro-impresa di produzione e vendita di biscotti. «Stiamo raccogliendo i soldi per questo», dicono.

Il loro laboratorio fa parte di un piano più ampio, che mira a integrare le donne nella vita economica di Thiaroye. Madame Diouf recupera le ragazze andando dalle madri che le tengono chiuse in casa. «Volete che vostra figlia abbia una formazione che l’aiuti a trovare un lavoro?», chiede ogni volta. Al Centro si impara gratis, e lì le maman del Collettivo aiutano le ragazze a organizzarsi per diventare economicamente indipendenti. «Se porta i soldi a casa, la famiglia terrà la figlia con sé più a lungo, non la darà in sposa da ragazzina», spiega Madame. E non la spingerà a rischiare la vita prendendo la via del mare o quella del deserto, fino alla Libia, dove spesso alle ragazze è riservata una sorte perfino peggiore di quella che attende i ragazzi.

Ragazze e ragazzi qui sono al centro di un programma di prevenzione della migrazione irregolare, coordinato da un migrante di ritorno dall’Italia. La sua esperienza aiuta, spiega Madame. «Diciamo ai ragazzi di non prendere rischi inutili, perché adesso come adesso in Italia, come in altri posti in Europa, di lavoro ce n’è poco», spiega in un perfetto italiano Moustafa Gueye. Mediatore del progetto “Ponti”, finanziato da Roma ai tempi del governo Gentiloni, ogni tanto Gueye lavora anche come maestro al Centro.

«Il progetto Ponti ha lanciato un bando di concorso per piccole startup. I candidati sono perlopiù ragazzi dai diciotto ai trent’anni, ma il programma è aperto anche alle donne fino a cinquanta anni e ai migranti di ritorno», spiega Moustafa Gueye. «La prima tappa è stata la formazione per la gestione d’impresa e l’educazione finanziaria. Poi ciascuno di loro ha fatto un business plan, necessario per farsi accettare il progetto. A quel punto arriva il finanziamento e l’accompagnamento della nuova impresa».

Tra gli imprenditori in erba c’è di tutto: avicoltori e apicoltori, sarti e ristoratori. Progetti di questo tipo sono fondamentali, spiega Moustafa Gueye, per chi pensa a partire, ma anche per chi è tornato e non sa se restare. «È difficile rientrare a casa dopo tanto tempo, non ci sono molti sbocchi in Senegal». Lui è tornato tre anni fa, dopo averne passati quindici a Milano. In Italia aveva trovato un buon lavoro in un’azienda di guarnizioni auto, lo avevano raggiunto anche i figli, poi le cose sono andate male. «Dopo la crisi del 2007-2008 abbiamo dovuto chiudere, sono rimasto con tre anni di mobilità e cassa integrazione. Alla fine mi sono detto che a 55 anni passati sarebbe stato difficile trovare un altro lavoro». Moustafa non sarebbe comunque rimasto in Italia per sempre. Come quasi tutti i migranti, ha sempre avuto in testa il ritorno a casa, ma anche per lui è stata dura, fino a quando ha incontrato la signora Diouf.

Moustafa Gueye segue con partecipazione i primi passi delle piccole nuove aziende, senza nascondere la sua preoccupazione: «Sono molto fragili, se non vengono sostenute rischiano di morire sul nascere». Il progetto pilota “Ponti”, con il leitmotiv “creazione di imprese per combattere l’immigrazione irregolare” era stato concepito per essere riprodotto e moltiplicato. Ma non ci sono altri bandi in programmazione. E se si spegne la speranza di farcela a casa, la voglia di riprendere la via per l’Europa torna a salire.

Thiaroye è soprattutto un villaggio di pescatori, ma negli ultimi anni per pescare bene, e guadagnarci, bisogna spingersi sempre più lontano. A volte i pescatori non tornano e vengono inghiottiti dai flutti, a volte si dotano di un motore e si danno al ben più redditizio lavoro del passeur, traghettando uomini e donne all’altro capo dell’Oceano. Madame Diouf è riuscita a farsi ascoltare anche da loro. «Ho contattato i trafficanti, ci ho parlato, e alcuni di loro oggi sono con me nelle campagne di sensibilizzazione», racconta. «Uno sta a Rufisque, un villaggio qui vicino, costruiva lui stesso le piroghe e faceva partire i giovani. Era qui con noi proprio ieri, sta finendo la sua formazione in educazione finanziaria».

La spiaggia di Thiaroye è larga e quasi attaccata a un gruppo di case. Decine di bambini corrono da una parte all’altra. Alcuni giocano a calcio dribblando dei copertoni semi-sepolti dalla sabbia, altri si nascondono nelle grandi piroghe di legno spiaggiate. I ragazzi più grandi stanno seduti in silenzio sulle panchine rivolte verso il mare. Sono isolati uno dall’altro, ognuno raccolto nella sua bolla. Il figlio di Madame Diouf, come tanti altri, è partito da qui. Oggi forse lo avrebbero convinto a restare.

«Non possiamo fermare il mare con le braccia, ma le partenze sono diminuite», dice Madame. «Sulla spiaggia ora ci sono dei comitati di sorveglianza che provano a persuadere i ragazzi a non partire». Non è la polizia, sono piccoli gruppi di anziani, donne, giovani e alcuni vecchi pescatori. «Siamo come in famiglia, parliamo e tutto si risolve all’interno della comunità. Non abbiamo bisogno della polizia».

Ma ci sono ancora madri e padri che finanziano i viaggi, e ragazzi che partono per conto loro, senza ascoltare nessuno, concede Madame Diouf. «Dobbiamo continuare a combattere, è una lotta senza confini e un lavoro molto difficile, perché bisogna sempre parlare e trovare alternative per dimostrare che si può restare qui e lavorare con dignità».