
Il regime degli ayatollah non tollera questa donna che cinque anni fa si è ritrovata quasi per caso a diventare un’attivista contro l’obbligo del velo. È bastata una foto scattata per le strade di Londra, dove Masih Alinejad, nata in un piccolo villaggio nel nord dell’Iran due anni prima della Rivoluzione che ha portato al potere Khomeini, si era trasferita nel 2009. Una foto che la ritrae con i capelli al vento. Masih pubblica l’immagine sul suo profilo Facebook commentandola con queste parole: «Ogni volta che corro libera e i miei capelli danzano nel vento mi viene in mente che vengo da un paese in cui da trent’anni quegli stessi capelli sono ostaggio della Repubblica islamica». Nel giro di pochi giorni il post riceve 14mila like, 741 condivisioni, più di 500 commenti. Decide allora di pubblicare poco dopo un’altra foto, sempre senza velo, scattata qualche anno prima ma questa volta in Iran: «Se vivi in un posto dove non ti è concesso fare praticamente nulla, impari presto a prenderteli i tuoi spazi di libertà, una libertà sempre clandestina».
Nasce così la campagna “My stealthy freedom”, la mia libertà clandestina, appunto: una pagina Facebook dalla quale Masih invita le donne iraniane a inviare foto e video dei loro più o meno piccoli momenti di libertà segreta. In cinque settimane la pagina raggiunge 500mila fan (oggi ha superato il milione) e viene invasa da foto di donne iraniane senza velo. Nel 2017 il salto dal virtuale al reale, dai social alle strade di Teheran e di tutto l’Iran. Masih lancia i “White Wednesdays”, i mercoledì bianchi, invitando le donne iraniane a uscire per strada senza velo o vestite di bianco.
Masih Alinejad, che oggi vive a New York sotto protezione per le numerose minacce di morte ricevute, era già conosciuta al regime. Prima di essere di fatto costretta a lasciare l’Iran, è stata per diversi anni giornalista parlamentare. Un mestiere che in un regime come quello iraniano non è facile. Masih si presenta al suo primo colloquio di lavoro senza neanche il diploma: pochi mesi prima dell’esame finale era stata arrestata per aver scritto e distribuito un volantino considerato antigovernativo. Trascorre circa un mese in prigione, quasi sempre bendata, costretta a scrivere e riscrivere decine di volte una “confessione”. È in cella quando scopre di essere incinta: «Come lo dico ai miei genitori?», è il primo pensiero. Ed è proprio quella gravidanza a salvarla: dopo circa un mese, viene finalmente portata davanti a un giudice che la condanna a 5 anni di prigione e 74 frustate, ma la pena viene sospesa e Masih torna libera. Con un bimbo in grembo e una macchia sulla fedina penale.
Poco dopo sposa il padre del bambino: un compagno di scuola, finito anche lui in prigione per le stesse ragioni. Poco dopo le nozze, la famiglia si trasferisce a Teheran, ma il matrimonio non dura a lungo e per Masih inizia un periodo molto duro: non è facile la vita in Iran per una giovane donna sola, divorziata, con un figlio (la cui custodia era stata affidata al padre) e addirittura con un trascorso in prigione.
Ma Masih non si dà per vinta e decide di rispondere a un annuncio di un quotidiano riformista, Hambastegi, in cerca di giornalisti. In pochi anni diventa una delle croniste politiche di punta. Si fa notare fin da subito per i suoi articoli di denuncia. E per le sue scarpe rosse indossate sotto un abbigliamento per il resto perfettamente conforme alle imposizioni del regime, che le costano una sospensione di 3 mesi. Ma i guai veri arrivano dopo le elezioni del 2004. La nuova assemblea è molto più conservatrice della precedente, e la vita per Masih diventa sempre più difficile. Finché, in seguito a uno scoop sulla corruzione di diversi parlamentari, le viene definitivamente ritirato l’accredito stampa per il parlamento. Masih continua comunque a scrivere di politica, fino al giorno che cambia la sua vita per sempre. Mancano poche settimane dalle elezioni presidenziali del 2009 che vedranno la conferma di Ahmadinejad. Masih, che si trova a Londra per studiare inglese, rientra a Teheran per seguire le elezioni.
Appena mette piede in Iran le viene però ritirato il passaporto, che le verrà restituito pochi giorni dopo solo dietro l’assicurazione che avrebbe lasciato il paese subito, e per sempre. Masih non ha scelta. Si trasferisce a Londra, dove continua a seguire le vicende iraniane. E si toglie il velo. Un gesto per nulla facile, neanche per una come Masih. «Avevo paura che le immagini di me senza velo raggiungessero i miei genitori e li facessero vergognare di me». Una paura più che fondata. I genitori di Masih vivono ancora a Ghomikola, lo stesso piccolo villaggio dove sono nati i loro sei figli. E ora che uno dei figli è stato arrestato ed è detenuto da fine settembre nel famigerato carcere di Evin implorano Masih di smetterla con la sua attività politica: «Se accade qualcosa a tuo fratello è colpa tua», le ha urlato la madre al telefono. Ma lei non cede: «È la strategia del regime. Vogliono farmi sentire in colpa per l’arresto di mio fratello. Ma la mia famiglia non è solo quella di sangue. La mia famiglia è Saba Kordafshari, 20 anni, condannata a 24 anni di carcere. È Yasaman Aryani, che ha 23 anni ed è stata condannata a 16 anni di carcere insieme alla madre. La mia famiglia sono le decine di donne che oggi si trovano nelle carceri iraniane solo per aver rivendicato un loro diritto».
Il ricatto morale è il filo rosso della vita di Masih. Quando vede alcune politiche occidentali indossare il velo durante le loro visite in Iran va su tutte le furie: «Non si rendono conto queste donne che indossare il velo senza batter ciglio significa legittimare una legge discriminatoria contro la quale le donne in Iran protestano rischiando la galera? Così facendo non solo non mostrano solidarietà con chi rivendica quelle stesse libertà di cui loro nei loro paesi godono, ma non fanno altro che rafforzare il regime che ci opprime. La storia le giudicherà». Quando le chiedo se ha paura, risponde: «Adesso che le donne iraniane hanno trovato il coraggio di rivendicare i propri diritti non posso certo abbandonarle. Il vero nemico della Repubblica islamica non è l’America, ma le donne iraniane con la loro disobbedienza civile. La prossima rivoluzione sarà femminista».