La nuova Via della Seta cinese è molto più di quel che sembra
Il piano della Cina per allargarsi per mare e per terra è ambizioso e probabilmente in pochi hanno davvero capito a cosa mira
L’espressione cinese che traduciamo come Belt and Road Initiative (BRI) significa molto di più di quel che sembra. Alla lettera sarebbe “iniziativa della zona e della via”, dove i due termini non sono in opposizione, l’uno distinto dall’altro, il primo riferito alla terra e il secondo al mare. Il senso di tutto il progetto è, al contrario, proprio quello di creare un unico, coerente e dinamico insieme territoriale composto da una via che sia una zona e allo stesso tempo da una zona che sia una via, al cui interno la stessa differenza tra mare e terra diventa secondaria. Per averne idea basta arrivare a Khorgos, la città-varco cresciuta come un fungo al confine tra Cina e Kazakistan, e che oggi è il porto asciutto più grande al mondo, uno dei punti della Terra più lontani dal mare dove si movimentano ogni giorno, attraverso la ferrovia, migliaia di container.
Perciò è tempo di mettersi alle spalle Sir Halford Mackinder, che all’inizio del secolo scorso inventó la geopolitica, attraverso l’idea che è ancora quella da cui oggi la maggior parte degli analisti occidentali partono per tentare di spiegare la strategia cinese. Mackinder distingueva tre sedi naturali della potenza mondiale, divideva il mondo in tre parti. La prima, interamente continentale, era l’interno dell’Eurasia propriamente detta, il perno geografico della storia, a nord cinto dal ghiaccio e comunque inaccessibile alle navi, da cui perciò restava fuori l’Europa bagnata dalle piogge atlantiche. Al di sotto di questo “cuore della Terra” s’individuava una mezzaluna interna, cintura periferica accessibile alla navigazione e distesa dall’Europa occidentale sino alla Cina e alla Kamciatka. Infine vi era una mezzaluna esterna che coincideva con l’emisfero marino. Come Mackinder avvertirà nel corso della Seconda guerra mondiale: se chi occupa la regione-perno (allora l’Unione Sovietica) riesce a espandersi sulle terre della mezzaluna interna (allora la Germania di Hitler) diverrà la prima potenza, perché raggiungerà l’accesso al mare alterando ogni equilibrio deciso dalla natura nell’ordine del mondo.
Per comprendere la natura della BRI, il più gigantesco piano di ingegneria politica mai concepito, a molti commentatori basta sostituire all’Unione Sovietica la Cina di oggi, erede dei tentativi espansionistici verso l’Asia centrale delle ultime dinastie imperiali, i Ming e i Manciú Qing. Il che copre al massimo un aspetto del progetto, un lato. Ma basta consultare i documenti ufficiali cinesi relativi all’Artico, anzi alla Via Polare della Seta, quella di cui meno si parla, per avvedersi che urgono invece nuovi modelli. Basta la premessa: la questione artica, che è ecologica ed economica oltre che politica, riguarda «la sopravvivenza, lo sviluppo e il condiviso futuro dell’umanità» intera. Non è insomma questione interregionale ma globale. E nell’Artico i Cinesi cercano anzitutto nuove rotte per abbreviare il tragitto verso l’Europa, cioè nuovi mediterranei, che sono appunto quelle aree al cui interno ogni distinzione tra via e zona cioè tra mare e terra (per Mackinder invece decisiva) risulta inessenziale. Fernand Braudel concepiva il nostro Mediterraneo appunto come una serie di «pianure liquide che comunicano per via di porte più o meno larghe».
L’originalità dell’iniziativa cinese sta proprio nel tentativo di intervenire nel controllo di due dei tre mediterranei che fin qui al mondo esistono, e di quelli che in seguito alla fusione dei ghiacci iniziano a definirsi verso il Polo Nord. Uno, quello americano costituito dal Golfo del Messico e il Mar dei Caraibi è decisamente fuori portata, al contrario degli altri due, il Mediterraneo euro-africano e quello cino-malese, composto dal Mar Cinese meridionale e orientale, dal Mar Giallo e dai mari indonesiani e filippini. E tale tentativo si spiega per almeno due ragioni.
La prima riguarda il compito che i mediterranei svolgono all’interno del funzionamento economico del mondo, di cui costituiscono la faccia poco esplorata, tollerata ed eterodiretta, il rovescio del sistema ma parte integrante del sistema stesso, la zona franca che funziona da spazio della deroga e dello scarto dalla norma, e proprio per questo garantisce la tenuta del complesso. Sede d’elezione dell’economia informale (a partire da quella relativa al traffico di droga, armi e esseri umani) essi definiscono l’insieme degli ambiti di cui gli stati nazionali hanno bisogno ma che agiscono trasgredendone le leggi, e che perciò fanno eccezione: casinò, paradisi fiscali, zone franche commerciali, basi militari, teste di ponte, servitù d’uso, parchi tecnologici, zone franche industriali d’esportazione, punti avanzati nell’ambito delle strategie di marketing territoriale. Diaframma tra il nucleo terrestre euroasiatico e quello oceanico, tale frangia assolve così una funzione decisiva nella produzione della rendita territoriale globale, ed é evidentemente questa la prima ragione dell’interesse cinese.
Anche il secondo motivo della tensione cinese verso i mediterranei riflette qualcosa di molto antico, comune sia all’Oriente che all’Occidente. Nei negozi di Khorgos le scritte sono in caratteri cinesi, cirillici, latini, georgiani e arabi. Prima dell’avvento degli stati moderni tale pluralità linguistica e culturale era normale in ogni organismo urbano degno di rispetto, in Europa oltre che in Asia. Si pensi ai quartieri genovesi o veneziani disseminati nei primi secoli del passato millennio da Siviglia e Cadice, cioè dall’Atlantico, fino al Mar Nero. L’unico possibile paragone con il progetto cinese è anzi proprio quello veneziano, uno stato in grado di comandare fino al Cinquecento sull’intero Mare Adriatico o quasi, attraverso un insieme di tecniche di dominio che andavano dall’alleanza all’acquisto di punti strategici, dalla concessione d’uso a quella che oggi viene definita la trappola del debito, per non dire della corruzione. In tal modo Venezia dominava il suo golfo. La Cina aspira invece a instaurare con metodi analoghi un nuovo ordine mondiale, esteso a tutto il pianeta.
Ci riesca o meno, la sua strategia insegna molte cose sulla natura della globalizzazione, e a quale punto essa sia. Come già il sistema veneziano anch’essa consiste in un complesso di tecniche di controllo, che non esclude nessuna delle forme di relazione e nessuno dei dispositivi territoriali fin qui messi a punto. Più precisamente, essa sembra tendere a subordinare al modello dello stato centralizzato tutte le articolazioni e le formazioni che sfuggono al suo schema, cioè esterne alla sua logica. Ma questo è possibile soltanto attraverso il rilancio e l’estensione proprio delle forme territoriali ad esso contrarie, che cioè precedono la nascita dello stesso stato moderno. Come avvertiva Ulrich Beck: la logica della globalizzazione è quella del paradosso. Forse si può dire con un po’ più di precisione: la logica della globalizzazione non è spaziale, non si fonda cioè soltanto sulla distanza, sul fatto che le cose siano più o meno l’un l’altra discoste, ma appunto come le scatole cinesi essa è ricorsiva, si basa sul fatto che le cose stiano l’una dentro l’altra: la zona sta dentro la via, la via dentro la zona. E, come le cose, stanno l’una dentro l’altra anche le logiche stesse.