È riuscita a isolare le forze sovraniste. Ora dovrà sfuggire dalla trappola di un parlamento diviso, di una commissione disomogenea e di un consiglio costantemente sotto scacco

Come ieri Simone Veil, oggi Ursula von der Leyen. La prima, ebrea francese, superstite di Auschwitz, fu fautrice in Francia della legge sull'aborto nel 1974 e poi divenne la prima e unica presidente donna del parlamento europeo. La seconda, tedesca, nata a Bruxelles da uno dei primi grandi burocrati della Comunità europea, ha portato le quote rosa in una Germania conservatrice e recalcitrante e, a quarant’anni dall’elezione di Veil, è diventata il primo commissario donna dell'Unione europea. 

Considerata una regina dei salotti di lavoro dove da 15 anni affascina leader politici di mezza Europa, Ursula Von Der Leyen era radiosa in aula quando ha accettato la vittoria risicata ma pur vittoria, 383 voti favorevoli rispetto ai 374 necessari, con quella giacchetta rosa pastello su pantaloni neri e lo sguardo da ragazza vivace e malandrina. «Due settimane fa nemmeno ce l'avevo la maggioranza», ha detto in conferenza stampa lei, madre di sette figli, sottolineando la capacità che hanno i piccoli passi nel raggiungere gli obiettivi: «Il mio compito come presidente sarà quello di convincere gli altri. Oggi c'era già più apertura di prima verso di me e in futuro ce ne sarà ancora di più, man mano che mi conosceranno e lavorerò insieme ai partiti pro Europa».

E radiosa, con quel sorriso che le nasce negli occhi e poi contagia chi lo riceve, era stata anche quando aveva spiegato i suoi piani per l'Europa, parlando in tedesco, francese e inglese. Aveva dosato gesti e sguardi, toni formali con accenti strettamente familiari, dal ricordo del padre, politico ardentemente europeista, ai suoi sette figli, che chiamano l'Europa “patria”. Aveva ammiccato ripetutamente al fronte progressista, parlando di salario minimo e di sussidio di disoccupazione, dicendo che la legge del mare impone i salvataggi e promettendo un “patto verde” per trasformare l'Europa nel primo Continente a emissioni zero entro il 2050. Aveva ribadito le sue credenziali di femminista convinta, annunciando una Commissione composta dallo stesso numero di commissari e commissarie e proponendo la firma della Convenzione di Istanbul contro la violenza domestica. Aveva perfino risposto a tono al gruppo Identità e Democrazia, quello che raggruppa la Lega di Salvini, il Rassemblement national di Marine Le Pen e l'Afd tedesca, che è contenta se non la votano, come annunciato, perché è il segnale che ha svolto un buon lavoro. Insomma: si era presentata con un discorso federalista sorprendente e applaudito che, insieme alle due lettere recapitate a socialisti e liberali nel fine settimana per spiegare quali misure ulteriori avrebbe intrapreso nel suo quinquennato per venire incontro alle loro richieste, ha ribaltato il giudizio altamente negativo che la maggioranza del parlamento e gli osservatori europei avevano su di lei.

Le sue colpe? La prima: essere stata alternativa al sistema di elezione del candidato leader del partito di maggioranza, adottato nella scorsa legislatura dal parlamento. La seconda: l'essere una candidata nata dall'accordo non dichiarato tra il francese Emmanuel Macron, leader del fronte progressista, e Victor Orban, capo dei sovranisti, entrambi uniti nel non volere il candidato del gruppo dei popolari, il 46enne bavarese Manfred Weber, come leader della Commissione.

Tutta la sfera sovranista di Identità e democrazia non l'ha votata, Lega inclusa, auto escludendosi dalla maggioranza che lavorerà alla creazione dell'Europa di domani. Ma sono state tante anche le defezioni del campo amico, dai socialisti tedeschi che le hanno giurato odio duraturo, ai greci e i belgi socialisti, passando per l'estrema sinistra della Gue e i Verdi che hanno dichiarato voto contrario. Resta il dato che alla fine la maggioranza della triade popolari-liberali-socialisti era con lei. E pure i polacchi del partito di governo Diritto e Giustizia, della famiglia dei conservatori europei, nonostante sia sotto scacco per comportamento anti democratico (o forse per questo) e Victor Orban, che a lasciare il partito popolare, nonostante le lusinghe di Salvini, non ci ha mai davvero pensato, sapendo bene che “squadra che vince non si tocca”. Meglio stare nell'angolo della stanza dei bottoni, finendo come è finito, per influirne i giochi, che fuori, tra i “brutti e cattivi”, ostracizzati dai posti di rilievo.

Alla fine la Lega è l'unico partito di governo a non averla votata mentre i socialisti di Roberto Gualtieri possono tirare un sospiro nel non trovarsi dalla stessa parte di Salvini, e ora reclamano il merito di avere condotto una trattativa con Van Der Leyen per conto dei socialisti europei («tra tedeschi ideologicamente contrari e spagnoli ideologicamente a favore») che la ha condotta a soddisfare le loro richieste in termini di corridoi umanitari, salario minimo e sussidio di disoccupazione europeo.

Ma non sarà un mandato semplice per un parlamento così variegato. La maggioranza è di soli 9 voti e non è sicuro che crescerà. Ogni provvedimento dovrà essere ampiamente e cautamente negoziato perché non finisca ostaggio dei sovranisti dell'ID. E i Verdi non regaleranno certo il loro appoggio. Le prime battaglie potranno nascere già a fine settembre quando il parlamento dovrà approvare i commissari dei singoli Paesi.
Proprio tra verdi e alcuni popolari il malcontento è più alto. Sono stati gli unici ad avere sperato davvero di riuscire ad influenzare i giochi a porte chiusi del Consiglio europeo. Durante le tre settimane antecedenti al Consiglio europeo del 3 luglio, Weber e la verde Keller avevano provato a convincere socialisti e liberali ad unirsi a loro per formare un ampio blocco di maggioranza parlamentare, fondato su un programma comune di compromesso che avevano cominciato a stilare, riunendosi in piccoli gruppi parlamentari.

Ma dopo le prime riunioni, liberali e socialisti si sono sfilati, raccontano i popolari, avendo preferito ascoltare le indicazioni dei loro capi di governo, e hanno rinunciato al tentativo di esercitare una vera influenza politica sul Consiglio. «Avremmo potuto prendere il sopravvento sul Consiglio, se solo fossimo rimasti uniti». E invece i socialisti spagnoli, inebriati dal recente successo alle elezioni nazionali, si sono affidati esclusivamente alle trattative di Pedro Sanchez con gli altri capi di Stato, evitando di mettergli qualsivoglia bastone tra le ruote. Stesso discorso per i liberali, proni al sommo leader Macron.

Morti (come presidenti di commissione) Weber e Frans Timmermans (ucciso dai Paesi dell'Europa orientale per la passione che aveva dimostrato come vice presidente della Commissione nelal promozione dello stato di diritto), Macron e Merkel hanno tirato fuori dal cilindro Van Der Leyen, immediatamente appoggiata da quell'oriente europeo che non poteva permettersi altri no.

Adesso non resta che lei. Questa donna aristocratica, minuta e ottimista, ex ministro tedesco della difesa e prima ancora della famiglia insieme ad Angela Merkel, che si definisce europeista convinta e pragmatica, appassionatamente atlantica e anti russa. Il mini capolavoro di isolare in parlamento le forze sovraniste lo ha ottenuto. Da vedere resta se riuscirà a sfuggire dalla trappola di un parlamento diviso, di una commissione disomogenea e di un consiglio costantemente sotto lo scacco dei sovranisti.  

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