La moda dell’ayahuasca investe l'Occidente. E scatta il "turismo sciamanico" in Amazzonia

Un vegetale che gli indigeni usano da secoli per entrare in contatto mistico con il cosmo è diventato un prodotto di consumo, tra Internet e "centri medici" per turisti. O con cerimonie illegali, anche in Italia

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Dopo aver ingerito l’ayahuasca per la prima volta, anni fa, l’antropologo canadese Wade Davis disse ai compagni di bevuta indigeni che per lui l’esperienza era stata «difficile e spiacevole». Prendendolo di sorpresa, loro gli risposero che era proprio questo il punto: essendo anche un forte purgante, l’ayahuasca scatena spesso vomito e diarrea, e può causare visioni mostruose e sensazioni corporee e psicologiche difficili. A quel tempo Davis non poteva immaginare che proprio questa, tra le tante piante psicoattive utilizzate dai popoli indigeni, si sarebbe diffusa in modo così dirompente a livello globale.

L’ayahuasca è un decotto medicinale a base di piante amazzoniche dal potente effetto psicoattivo, il cui studio e consumo si sta diffondendo in ogni angolo del mondo, producendo una nuova forma di “turismo sciamanico” soprattutto in Perù e in Ecuador. Un fenomeno che ormai costituisce un’importante fonte di entrata economica per queste nazioni, ma che non è privo di impatti negativi, anche socio-ambientali.

L’ayahuasca scientificamente si chiama Banisteriopsis caapi ed è una liana rampicante originaria dell’Amazzonia, conosciuta anche come conosciuta anche come yagè. Se combinata ad altre specie vegetali ed in particolare alla chacruna (Psycotria viridis), dà vita ad una miscela unica con potenti effetti medicinali e psicoattivi, ma non solo. All’interno di un rituale indigeno guidato da un “curandero” o sciamano, questa sostanza permetterebbe l’incontro tra la comunità di persone che la consuma, l’anima dei vegetali presenti nella miscela e gli spiriti della natura circostante.

Così come l’ayahuasca, molte altre piante appartenenti alla farmacopea amazzonica vengono definite “maestre”, poiché considerate in grado di offrire sapere ecologico, dando accesso ad una sorta di “internet della foresta” e aprendo lo sguardo di chi le ingerisce sulle interconnessioni tra gli esseri del cosmo.

Le tribù amazzoniche usano diversi strumenti per accedere a questi mondi. Ad esempio i sogni, i digiuni, rispettare certi tabù e compiere certi rituali sono alcuni metodi per condividere la coscienza e la conoscenza riguardo ad altri esseri. L’identità, sia individuale sia comunitaria, è legata al senso di compenetrazione con la natura, per cui “assumere altre forme” (sia vegetali sia animali) è un atto necessario alla condizione umana stessa. L’ayahuasca permette agli abitanti della foresta di sperimentare uno stato di interconnessione con il cosmo, ma anche di negoziare, creare alleanze e difendersi dalle forze occulte presenti nell’ambiente, comprese quelle di altre tribù. Costituisce quindi uno dei tasselli del mosaico culturale amazzonico.

Ciò che attrae dell’ayahuasca in Occidente sono soprattutto le qualità visionarie e “rivelatrici” di questa medicina: fin dai tempi dei conquistadores siamo affascinati dall’idea di esotico e dall’alterità spirituale. Da mezzo secolo questa pianta attira anche l’interesse di ricercatori di ogni tipo, inclusi i farmacologi che tentano di testare l’attività molecolare dell’aya­huasca per ricavarne rimedi per i disturbi psichiatrici. Ma l’interesse da parte del campo biomedico non si manifesta solo in una caccia alle molecole: nella seconda metà degli anni ’80 un medico francese, Jacques Mabit, iniziò a dedicare la propria vita per imparare i segreti delle piante maestre sotto la guida di diversi guaritori tradizionali amazzonici, per poi sviluppare un protocollo terapeutico basato sull’uso rituale di queste piante per la riabilitazione di tossicodipendenti nella comunità terapeutica Takiwasi, da lui fondata nella regione di San Martin, in Perù.

Alcuni sostengono che solo durante il XIX e XX secolo, l’utilizzo di ayahuasca ha acquisito il ruolo di “medicina”, per rispondere ai problemi di salute dei lavoratori sfruttati nelle coltivazioni di gomma durante l’epoca coloniale. Negli ultimi anni invece, con il turismo globale, si è creato un fenomeno che vede migliaia di persone approdare ogni anno in Sud America per consumare ayahuasca come “esperienza esotica” e, in Occidente, una crescente diffusione di (cosiddette cerimonie di ayahuasca: durante l’estate si sono diffuse anche in Italia, soprattutto in Toscana e in Umbria, di solito in case private di campagna. Il tutto avviene solo attraverso il tam-tam, essendo da noi l’ayahuasca illegale.

In Perù, nella città di Iquitos dove metà della popolazione vive in condizioni di estrema povertà, sono sorti più di cento centri di medicina amazzonica, spesso gestiti da cittadini europei e statunitensi che collaborano con guaritori locali per “curare” una clientela composta principalmente da turisti stranieri. Tutto ciò ha generato nuovi posti di lavoro ma la tradizione e il rituale, in questi centri per occidentali, sono sempre meno riconducibili alla cultura locale, perché si adattano per rispondere a bisogni, patologie e aspettative dei nuovi consumatori. L’uso e il significato dell’ayahuasca rischiano quindi di essere fagocitati dal modo di pensare occidentale fondato sull’individuo e che magari abbina la ayahuasca a un ritiro yoga, mettendo sempre al centro lo sviluppo e la cura del singolo.

I guaritori che lavorano per gli occidentali privilegiano delle miscele di piante che potenziano gli effetti visionari per rispondere alla richiesta di droghe, e limitano invece l’effetto emetico, non riconoscibile come curativo da una prospettiva biomedica. Le visioni vengono interpretate in un nuovo linguaggio psicologico, che parla di trauma, introspezione, crescita personale e ricerca della propria vocazione. La spiritualità occidentale spesso si spinge poco oltre la fede nelle molecole presenti nella pianta, pertanto non partecipa alla riproduzione della complessa cosmovisione locale nella quale l’ayahuasca viene riconosciuta come uno spirito vegetale presente durante la cerimonia. Il sistema di significati locale rischia di frammentarsi e di ricomporsi in funzione dei bisogni dei nuovi consumatori.

La corsa al consumo dell’ayahuasca inoltre ha spinto i guaritori locali a un apprendistato troppo rapido che talvolta mette a rischio la salute dei loro clienti. Il sapere sciamanico è diventato insomma un prodotto di consumo.

I gestori stranieri di questi centri hanno il vantaggio, rispetto ai locali, di poter attingere alle loro reti sociali nei paesi di origine, attirando così un maggiore flusso di turisti e instaurando dinamiche di concorrenza, disuguaglianza ed invidia. Ne risulta minacciato anche l’antico sistema di reciprocità: secondo la cultura amazzonica quando si caccia, pesca o si raccoglie una pianta, generalmente si offre un dono materiale agli spiriti della selva per riequilibrare la relazione con il cosmo. Ora invece c’è chi con 10 dollari si approvvigiona di 30 chili di materiale vegetale raccolto a mano da fornitori che si spingono sempre più nel cuore della giungla, invadendo terre indigene o rischiando di imbattersi nei narcotrafficanti.

Gli stranieri pagano, ma di fatto alimentano un’estrazione più intensa della pianta e logorano il sapere ancestrale amazzonico. Del resto, per secoli l’Occidente ha sfruttato il sapere medicinale dei popoli indigeni: gli scienziati hanno riempito questionari chiedendo a tribù di tutto il mondo quale pianta curasse quale malanno, senza però prendere sul serio la loro relazione con le piante, che sta alla base di questo sapere botanico e della gestione del territorio, ovvero una cosmovisione animista che riconosce a piante ed animali, ma anche ad acqua e luoghi, un’anima. E l’animismo, seppur giudicato come “primitivo”, ha contribuito al fatto che i popoli indigeni (5 per cento della popolazione mondiale) salvaguardino oggi l’80 per cento della biodiversità globale. Solo negli ultimi anni in Occidente si è iniziato a prendere sul serio la ricerca scientifica sull’intelligenza vegetale (tra le più note quella italiana di Stefano Mancuso)

Ora il “boom” dell’ ayahuasca viaggia dunque tra questi due estremi: da un lato puro consumo psicotropo, dall’altro interesse reale verso un modo diverso di rapportarsi alla natura. Jeremy Narby, antropologo e attivista, consiglia almeno di fare donazioni alle organizzazioni indigene che si dedicano a salvaguardare la foresta amazzonica ogni qualvolta che si consuma ayahuasca. E aggiunge: «Essere responsabili significa rispondere all’ambiente, riconoscergli la capacità di instaurare una relazione con noi».

Per una volta, forse, non dobbiamo limitarci a “rubare” una pianta, ma rispettarla imparando dai popoli che la conoscono da secoli. Così da proteggere uno degli ultimi angoli del nostro pianeta dove esiste un legame profondo e rispettoso con il cosmo.

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