Su una scrivania non troppo affollata, Raed al-Maslah mette in ordine le carte per il prossimo interrogatorio. Alla sua sinistra in alto, su un grande monitor, le immagini trasmesse dalle telecamere di sicurezza rivelano la vita caotica della Corte. Alle sue spalle, invece, quasi a vegliare dall’alto, l’immagine dell’aquila nera e dorata che porta la bandiera nazionale in petto, simbolo della Repubblica di Iraq. Un campanello tintinna all’apertura della porta annunciando l’arrivo del nuovo arrestato. Ad essere accompagnata di fronte al giudice questa volta è una donna originaria di Tell Afaar, cittadina a prevalenza turkmena, per tre anni una delle roccaforti dello Stato islamico vicino a Mosul.

Al-Maslah è il primo giudice delle indagini preliminari della Corte Speciale per il Terrorismo della regione di Ninive. Da due anni il Tribunale ha sede a Tell Kef, pochi chilometri a nord di Mosul, l’ex-capitale de facto dello Stato islamico in Iraq. La donna invece era un’insegnante prima che l’Isis occupasse la sua cittadina e suo marito si affiliasse all’organizzazione come combattente. Di lui dice di aver perso le tracce. Ma lei è stata adesso arrestata per aver trasferito migliaia di dollari per conto dell’organizzazione terrorista. L’Isis continua infatti a lavorare clandestinamente in tutto l’Iraq, dove diversi membri fanno da tramite per mantenere e trasmettere il suo capitale. È un fatto del tutto eccezionale che il giudice conceda all’Espresso di assistere all’interrogatorio della donna.
«Trentamila dollari la prima volta, ventimila dollari la seconda, la terza solo trecento. È lei stessa ad indicarci con precisione somme e luoghi di incontro e a fornire dettagli della modalità», sottolinea il giudice, prendendo appunti. «Anas chiama Khaled, Khaled chiama Ahmed e Ahmed chiama Anis e così via: sono tutti nomi fittizi, nessuno di loro sa né chi lo sta chiamando né chi ha fornito il numero. Quello che sanno tutti invece è che la telefonata non è giunta all’improvviso né per caso: la stavano aspettando».

Sono definite cellule dormienti dell’Isis ma in verità non stanno dormendo affatto. Lo dimostra anche questa donna che, prima di essere arrestata, prelevava somme di denaro e le passava ad altri. «Appuntamento di fronte la moschea di Nabi Yunes, appuntamento di fronte al centro commerciale, appuntamento di fronte al mercato… poche parole chiave, un orario preciso e un sacchetto di plastica per la spesa con decine di dollari dentro da portare via. I destinatari del denaro sono principalmente i familiari dei combattenti dell’Isis che si nascondono nel deserto tra Iraq e Siria o di quelli in carcere di cui spesso non hanno notizie». Come tutte le mafie nel mondo, anche l’Isis ha bisogno di tener viva la fede dei suoi sostenitori, fede che si traduce in banconote da distribuire.
Col suo sguardo cordiale ma deciso e la sigaretta spesso in bocca, il giudice Raed al-Maslah sta raccogliendo diversi testimoni e i tabulati telefonici degli indagati per ricostruire lo spostamento di questo capitale immenso e capire come lo Stato islamico stia provando a risorgere in Iraq. «Un’altra fonte ci ha detto che al telefono hanno ordinato di trasferire cinquantacinquemila dollari in un colpo solo. Gli arrestati, come questa donna, finora si sono dichiarati sempre innocenti, dicendo di farlo dietro minaccia, ma i loro numeri di telefono non sono composti a caso: chi chiama sa già per certo che quella persona è disponibile, è affiliata: è fedele. E se davvero lei fosse innocente, perché non è tornata a fare l’insegnante come molte donne di Tell Afaar che sono tornate al proprio lavoro statale con uno stipendio regolare? Che sia colpevole o innocente, lo stabiliranno le indagini. Ma in ogni caso chiunque abbia lavorato per l’Isis è una vittima di quel sistema criminale». Il 7 luglio 2019 l’esercito iracheno e la coalizione internazionale a guida statunitense hanno lanciato la campagna “Will of Victory” per colpire le cellule dell’Isis in vaste aree del paese che, dopo la sconfitta di Mosul, hanno continuato ad organizzare attentati e reclutare nuovi militanti.

Raed al-Maslah è di Baghdad, ma da quando quasi due anni fa ha preso servizio alla Corte di Mosul torna a casa una volta ogni quaranta giorni. Per tutta la settimana, notte compresa, lavora in Tribunale dove alla mattinata di interrogatori seguono visite agli arrestati, lettura di documenti, visione di centinaia di video, tutto il materiale utile alle indagini. A ridosso della scrivania quasi ordinata, una porta conduce alla sua stanzetta dove trascorre le brevi notti, prima di cominciare l’ennesima lunga giornata. Dietro la scelta di limitare gli spostamenti, non vi è soltanto l’enorme mole di lavoro da fare, ma motivi di sicurezza. Anche Raed, come molti giudici iracheni, è sotto costante minaccia di morte per le indagini che svolge.
La giustizia irachena ha tra le mani migliaia di casi: i militanti arrestati durante la battaglia e le decine di nuovi arresti, come la donna di Tell Afaar. Tante persone vengono regolarmente scarcerate per mancanza di prove o perché ingiustamente accusate di far parte dell’Isis, come è accaduto a un dottore «che è stato costretto dall’Isis a lavorare in ospedale, ma che dopo un anno e mezzo è riuscito a scappare. Era innocente», riporta il giudice, chiedendo al suo assistente di chiamare di nuovo il medico, ormai in attesa della scarcerazione, perché sia lui stesso a raccontarsi.

Il superiore di al-Maslah si chiama Salem Nuri, giudice Presidente della Corte di Appello di Mosul. In uno scaffale accanto alla scrivania, Nuri conserva una piccola scultura a lui molto cara. Si alza in piedi per prenderla e poggiarla sopra la pila infinita di carte sul tavolo. «Questo è il Codice di Hammurabi, uno dei primi codici di legge esistenti al mondo», dice con uno sguardo severo, quasi in tono di rimprovero, tenendo in mano il modello raffigurante la stele in basalto nero. «Questa è la storia dell’Iraq: da questo codice di leggi babilonese dell’Antica Mesopotamia a oggi, possiamo affermare di credere nella giustizia e nello stato di diritto. Non è un caso che siamo stati il primo obiettivo di attentati dei leader dello Stato islamico, anche prima che occupassero Mosul nel giugno 2014». Nuri, come tutti i suoi colleghi, a seguito dell’occupazione della città, è scappato insieme alla famiglia verso Erbil, nel Kurdistan iracheno, dove tuttora risiede. Ogni mattina si reca a Mosul per lavorare alla Corte, in una città ancora semidistrutta dalla feroce battaglia per scacciare l’Isis. Della sua casa a Mosul, al posto dei suoi ricordi, non sono rimaste che macerie.

In un sistema prevalentemente corrotto ed eccessivamente burocratico, con la tortura regolarmente praticata nelle carceri per estorcere le confessioni, questi giudici stanno lottando dall’interno per riformare il sistema. Ma il primo grande ostacolo è proprio la legge anti-terrorismo del 2005 che prevede la pena di morte o venti anni (in Iraq considerato l’ergastolo) per leader e affiliati di organizzazioni terroristiche senza distinzione di ruoli e crimini commessi. Una legge che rimane vaga su diversi punti. Da Baghdad è il giudice Ahmed di Mosul, collega e amico dello stesso al-Maslah, a parlare delle pecche del sistema iracheno. Anche lui scappato da Mosul nel 2014, ha continuato il suo lavoro a Baghdad al Tribunale Penale di Rusafa e poi di Karkh, i due distretti di Baghdad rispettivamente a est e ovest del fiume Tigri che attraversa la città. «Il problema è la legge che deve essere riscritta, guardando alle sfide di oggi. Spesso devo emettere sentenze che non mi rappresentano, che non rappresentano la mia cultura, come la pena di morte», confessa Ahmed che preferisce non venga pubblicato il suo cognome. «Avevo dichiarato innocenti delle donne perché non le ritenevo affiliate dell’Isis: da come parlavano ho capito che non avevano nulla a che vedere con Daesh. Eppure poi in appello sono state condannate».
Ogni frase è interrotta dall’aspirare profondo della sigaretta e dal sorseggiare del caffè. Poi conclude: «Dobbiamo lottare per affermare la giustizia, ma ricordare che il lavoro di indagini che precede la sentenza è serio e si basa su robusti dossier di indagini, spesso ignorati dalla stampa internazionale». Molti dei giudici hanno un’esperienza da diversi anni e si ritrovano a processo dei militanti estremisti che avevano già condannato ai tempi di al-Qaeda, come racconta Jawwad Hussein, giudice a Rusafa, Baghdad: «Alcuni li conosco personalmente, li avevo condannati nel 2010 e sono fuggiti da Abu Ghraib nel 2013. Per dimostrare la loro affiliazione all’Isis, hanno compiuto subito dei massacri», spiega senza mezzi termini.

Uno dei primi passi positivi dell’Iraq post-Isis è stato già fatto: la Corte Internazionale dell’Aja nel luglio del 2018 ha organizzato un pilot training coi giudici iracheni e altri esperti di indagini criminali internazionali che hanno così unito le forze. Al-Maslah era presente e ha presentato alla conferenza la sfida del suo lavoro nella raccolta di prove, nello svolgimento delle indagini e dei processi. Ad ascoltarlo anche Karim Khan, avvocato penalista britannico, oggi a capo della missione investigativa dell’Onu in Iraq per i crimini di Daesh (acronimo arabo di Stato islamico). Khan e al-Maslah non si perderanno di vista un attimo, almeno per i prossimi due anni di mandato investigativo che potrebbe portare alla Norimberga d’Iraq.
Mentre a Mosul si trovano solo gli indagati di crimini commessi nella regione di Ninive, di cui Mosul è capoluogo, a Baghdad ci sono anche i cosiddetti foreign fighters, cittadini provenienti da decine di paesi del mondo che si sono uniti allo Stato islamico. Negli primi mesi del 2019, la condanna a morte di dodici cittadini francesi a Baghdad ha riportato al centro dell’attenzione internazionale il tema della giustizia in Iraq, il paese in cui una delle più grandi organizzazioni terroristiche internazionali, l’Isis per l’appunto, ha provato a costruire uno Stato, ambendo a ridisegnare i confini tra l’Iraq e la Siria in guerra. Che gli stranieri siano giudicati alla Corte di Baghdad dipende soprattutto dalla presenza delle ambasciate nella capitale, permettendo così ad ambasciatori e interpreti di seguire le udienze. Raramente invece sono presenti avvocati dei paesi di origine degli imputati. Gli stessi stati del resto non hanno alcun interesse ad estradarli.

«Siamo pronti a lavorare a questi casi, ma abbiamo anche bisogno della cooperazione internazionale», ricorda Raed al-Maslah. «Gli Stati in possesso di informazioni e prove devono condividerle con noi e solo così potremo sconfiggere questa minaccia globale: con un’alleanza globale tra i diversi paesi. Non lasciateci soli», sono le ultime parole che riecheggiano infine tra i nostri pensieri. Perché si sa che Daesh può tornare. Basterebbe solo averne consapevolezza, e non scrollarsi di dosso tutto ciò, come se non ci riguardasse.