Le ultime due settimane prima della Conferenza di Berlino sono state segnate da eventi cruciali, culminati nel blocco dei pozzi, alla vigilia dell’incontro.
La Turchia di Erdogan ha annunciato l’invio delle truppe, facendo seguito all’accordo di cooperazione militare stretto con Fayez al Sarraj in Dicembre, il generale Khalifa Haftar - sostenuto da una milizia salafita madkhalista, la Brigata 604 - ha occupato e conquistato la strategica città di Sirte, e sul fronte di Tripoli sarebbero comparsi ribelli siriani reclutati dalle truppe di Erdogan in supporto ai soldati che difendono la capitale libica dalle truppe di Haftar.
Soprattutto, il giorno prima della Conferenza di Berlino le milizie e le tribù legate al Generale Haftar nella parte orientale della Libia hanno bloccato i pozzi di petrolio.
Ahmed Mismari, portavoce dell’LNA di Haftar, in un comunicato ha annunciato che è stato ‘il popolo libico a bloccare i pozzi’. Poche ore dopo il blocco, un comunicato dell’Unsmil, la missione speciale delle Nazioni Unite sulla Libia, ha espresso ‘profonda preoccupazione per le possibili devastanti conseguenze’ ma – una volta ancora dall’inizio della guerra, il 4 aprile 2019 – evitando di nominare il generale Khalifa Haftar.
Come sempre in Libia, si scrive guerra e si legge gas. E’ stato così storicamente. Lo è con maggiore nettezza oggi. Parte della guerra di Libia si gioca sui pozzi e le raffinerie nel paese, ma ormai una parte consistente si gioca nel Mediterraneo orientale. Zona di perforazione, e sede di progetti di gasdotti, zona in cui confluiscono ambizioni contrapposte. Il petrolio è un ricatto rivolto all’interno e un ricatto agli alleati esterni.
In un comunicato stampa di domenica, la National Petroleum Company (NOC) ha riferito che le esportazioni verso i porti noti come la "mezzaluna del petrolio" , i polmoni dell'economia libica, si erano fermate: Brega, Ras Lanouf, al-Sedra e al-Hariga.
Il blocco causerà un calo della produzione del Paese da 1,3 milioni di barili al giorno a 500.000 barili al giorno e un deficit di 55 milioni di dollari al giorno.
Una fonte interna al NOC ha dichiarato a Reuters sabato mattina che sia stato proprio l’LNA (l’esercito di Haftar) a ordinare alle milizie la chiusura dei porti e il conseguente blocco delle esportazioni.
Nonostante questo Haftar è stato accolto a Berlino, senza che il tema venisse neppure sfiorato. Haftar controlla i pozzi ma non può vendere il petrolio, Tripoli controlla le istituzioni ma non i pozzi e le raffinerie. È il comma 22 della guerra di Libia.
«Non c’è dubbio che la chiusura dei pozzi nel Golfo di Sirte mostri che i sostenitori di Haftar nell’Est stiano alzando la voce e mostrando la forza per ricordare ai partecipanti a Berlino e alla comunità internazionale che le rimostranze che sono alla base del conflitto resistono e sono ancora irrisolte. Uno dei temi è che le rendite del petrolio che finiscono nella Banca Centrale di Tripoli vengano consegnate all’Est, in relazione al fatto che le forze militari che fanno capo al Libyan National Army di Haftar garantiscono il flusso del greggio, producendo dunque quelle entrate. La seconda richiesta, implicita in questo blocco, è quella di cambiare il capo della Banca Centrale» spiega Claudia Gazzini, senior analyst per l’International Crisis Group.
Al momento, infatti, il generale Khalifa Haftar e le forze militari a lui collegate controllano la maggioranza dei pozzi e delle raffinerie, ma non possono monetizzarle, perché le entrate del petrolio e del gas sono incanalate dal NOC, la National Oil Corporation, basata a Tripoli, la sola istituzione che può esportare gas e petrolio e che drena le entrate attraverso la Banca Centrale.
La Banca Centrale a sua volta lavora principalmente con il Governo di Tripoli, sebbene paghi gli stipendi dei funzionari della parte orientale della Libia.
«Non sappiamo ancora quanto durerà questo blocco, dipenderà anche da come reagiranno gli Stati Uniti, due anni fa, quando accadde qualcosa di simile, i funzionari americani chiesero con urgenza al Generale Haftar di riaprire i terminal petroliferi, ora la situazione è differente, per prima cosa perché gli Stati Uniti dipendono meno dalle importazioni, il prezzo del petrolio è sceso, e forse a Washington c’è meno preoccupazione di un tempo sull’impatto globale di queste chiusure, e potrebbero dunque decidere di aspettare prima di fare pressione su Haftar?» aggiunge ancora Claudia Gazzini.
La chiusura dei pozzi è stato, per Haftar, certamente un mezzo per fare pressione (indiretta) sui presenti a Berlino ma è bene ricordare che tutta la Libia, inclusa la zona controllata da Haftar faccia affidamento sulle entrate petrolifere, un paese in cui, secondo i dati del 2018, la rendita degli idrocarburi costituiva il 90% delle entrate statali.
Tim Eaton, ricercatore per Chatam House ritiene che il blocco possa essere interpretato secondo due direttrici: «Per prima cosa porre fine al blocco diventerà una ‘concessione’ da mettere sul tavolo di Berlino, e poi LNA farà leva nuovamente per spezzare il monopolio del NOC di Mustafa Sanalla sulle vendite del petrolio».
Il gas e il petrolio contano sempre, dunque, ma mai direttamente. Sono sempre sul tavolo e vengono usati come ago della bilancia, strumento di pressione, da attori locali e internazionali, servono da collante per vecchie e nuove alleanze.
Lo scorso cinque Dicembre Sarraj e Erdogan hanno firmato un accordo marittimo che stabilisce una linea di 35 chilomentri tra Turchia e Libia, sancendo di fatto un confine esterno, una zona economica esclusiva, che però incide in un’area rivendicata da Grecia e Cipro, che hanno piani di costruzione di un gasdotto nel Mediterraneo Orientale.
Il due gennaio scorso Grecia, Israele e Cipro hanno firmato un accordo per costruire un gasdotto per trasportare gas dal Mediterraneo sud-orientale all’Europa continentale, progetto cui la Turchia si oppone perché – appunto – insiste su un’area a cui aspira Erdogan.
La partita delle alleanze e delle interferenze sulla pax libica si è dunque allargata e complicata. La Grecia non è stata invitata in Germania e ha dichiarato che si opporrà a ogni accordo di pace in Libia a meno che non venga cancellato l’accordo marittimo tra la Turchia e il governo di Fayez al Sarraj.
Haftar per rendere più solido e allargato il fronte anti-Erdogan pochi giorni prima della Conferenza è volato ad Atene, ha incontrato il ministro degli Esteri greco. La tenuta delle alleanze, è evidente, si sta giocando anche sui diritti di perforazione del Mediterraneo centrale.
«La Turchia non sta interferendo in Libia solo al fine di ottenere l'accesso a parte delle enormi riserve di gas naturale che sono state scoperte nel Mediterraneo orientale dal 2013, ma è sicuramente uno dei principali fattori e la Grecia è profondamente schierata con LNA di Haftar e la sua guerra, perché aspira a tutto il gas naturale del Mar Egeo, senza alcuna intenzione di condividerlo con la Turchia» dice Jalel Harchaoui ricercatore sulla Libia per il Clingendael Institute. Quello che è chiaro è che oggi in Libia le alleanze siano fluide e spesso sovrapponibili.
Da un lato c’è l’asse Grecia/Cipro/Israele a sostegno di Haftar per difendere gli interessi nel Mediterraneo Orientale, coalizione – quella a sostegno del Generale della Cirenaica – di cui fa parte anche la Russia di Putin. Che l’otto gennaio scorso, mentre il governo italiano tentava maldestramente di mediare un incontro (che non è poi avvenuto) tra Haftar e Sarraj, erano a Istanbul per inaugurare il Turkish Stream, il gasdotto da 930 km che porterà il gas russo in Europa attraverso la Turchia.
Alla cerimonia di inaugurazione Putin ha detto che il gasdotto è un segno di “cooperazione a beneficio della nostra gente e delle persone di tutta Europa, del mondo intero" sottolineando la stretta cooperazione tra Ankara e Mosca. Che passa dal gas, certo, ma anche dalle sfere di influenza in Siria e ormai solidamente anche in Libia. Nemici no, meglio non amici, dunque.
Sono stati proprio Putin e Erdogan i promotori di un incontro a Mosca, una proposta di cessate il fuoco firmata da Sarraj e dal capo del Consiglio di Stato Khaled Mishri, ma rigettata da Khalifa Haftar e da Aghila Saleh, il capo del Parlamento di Tobruk.
Il rifiuto di Haftar è riconducile a vari fattori (non può accettare il ritiro delle truppe dalla periferia di Tripoli, ad esempio) ma soprattutto dimostra ai suoi alleati internazionali che le sorti militari della sua offensiva non dipendono solo da Mosca, e che – se anche Putin facesse un passo indietro – ha altri sostenitori altrettanto forti (gli Emirati Arabi Uniti).
Da una parte dunque gli interessi energetici dei due non-amici (Turchia/Russia) in vista del Turkish Stream, dall’altra quelli di Cipro/Israele/Grecia (e Egitto).
In mezzo, i governi europei e i loro interessi economici (si legga energetici) nel paese.
«L'Italia importa ogni giorno una grande quantità di idrocarburi dalla Libia e sa che - se la guerra si deteriorerà - il flusso delle importazioni libiche potrebbe essere seriamente interrotto. Ecco perché l'Italia vuole la calma in Tripolitania, mentre la Francia vuole che Haftar continui la guerra per raggiungere la vittoria» commenta ancora Jalel Harchaoui.
In una recente intervista a Der Spiegel, il ministro degli Esteri Luigi di Maio ha sostenuto che «l’Italia e l’Europa hanno perso terreno in Libia per una semplice ragione: non erano disposti a fornire armi ai belligeranti».
La verità è che l’Italia e l’Europa in questi anni hanno perso terreno in Libia perché hanno progressivamente ristretto l’angolo di osservazione sul paese nordafricano, la principale lente indirizzata a sud di Lampedusa è stata quella legata alle politiche migratorie, alle quote per ospitare i migranti che attraversavano il Mediterraneo e a come controllare le partenze dalle coste della Tripolitania, come trattare con il governo di Sarraj e come smantellare (o cooptare) il potere delle milizie che controllano il traffico di uomini.
Intanto lo scenario si modificava irreversibilmente, con attori nuovi – certo – e con attori presenti da tempo sul terreno libico e da tempo sottovalutati. «Finora l'Italia non è riuscita ad avere una politica equilibrata, ha continuato piuttosto a fluttuare da un polo all'altro, il che ha diminuito fortemente la sua credibilità, indebolendo il capitale politico con entrambe la parti» commenta Emad Badi, ricercatore esperto di Libia e Sahel.
La conferenza di Berlino si è conclusa con sollievo da parte dei governi europei che hanno cercato di colmare la distanza con i nuovi attori centrali nella partita libica, ma ha anche contribuito a rafforzare solidi legami. La questione aperta del post-Berlino è se i due contraenti riusciranno a convincere i proprio sostenitori in casa e fuori dai confini libici. Da un lato le milizie dunque (e quando parliamo di milizie parliamo del controllo di pozzi e raffinerie) e dall’altro alleati che – soprattutto nel caso di Haftar – non hanno abbandonato l’idea di una vittoria militare.
Nessun governo europeo poteva permettersi di tornare da Berlino senza una bozza di accordo firmata, Angela Merkel ha con onestà ribadito che la conferenza sia stata un passo di un percorso tutt’altro che facile, Ghassam Salamè ha espresso soddisfazione a nome delle UN. Va certamente ricordato però, che quando Haftar lanciò la sua offensiva su Tripoli ad Aprile, Salamé stesso era nella capitale e nulla potè di fronte alla determinazione dell’aggressione militare del Generale di Bengasi.
Il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres è stato realista: «Non possiamo monitorare un cessate il fuoco che non esiste». La strada è in salita, dunque. I pozzi chiusi e Tripoli, stanotte, era di nuovo sotto le bombe.