I margini della tenuta democratica che si restringono, il ruolo degli Stati Uniti nella situazione mediorientale, le possibilità dei radicali Warren e Sanders di diventare presidenti. Parla il grande intellettuale Michael Walzer

Donald Trump
Può l’Occidente sopravvivere a Donald Trump? L’abbiamo chiesto a Michael Walzer, filosofo, professore emerito all’Università di Princeton, animatore di gruppi e riviste eterodosse di sinistra: prima fra tutte “Dissent”, che ha diretto per tre decenni. A 85 anni, una vita di studi e di militanza alle spalle, Walzer si dimostra preoccupato per il disinteresse del presidente in carica nei confronti degli alleati nel mondo e teme che la democrazia negli States non sopravviva ad altri quattro anni del suo potere, ma è convinto che la sinistra e il Partito democratico abbiano molte carte da giocare (ammesso che lo vogliano).

Visto dall’Europa, sembra che Trump stia mettendo in pericolo l’idea stessa di Occidente.
«Se il discorso è sull’Occidente, come si è formato a seguito della Seconda guerra mondiale, allora Trump non ha idea né cosa sia né di cosa si parli. “America first”, la sua parola d’ordine, significa un’America sola e isolata e che cerca di agire per trarre vantaggi ovunque nel mondo, incurante degli alleati. Nel suo staff per la politica internazionale Trump ha fatto piazza pulita delle persone che facevano riferimento al vecchio establishment e si è contornato di uomini e donne che la pensano come lui. Eccoci dunque in un mondo nuovo, sconosciuto, non esplorato».

Sta dicendo che l’Impero è in via di smantellamento e che il mondo ha perso il suo centro?
«Per la verità noi americani non siamo mai stati dei bravi imperialisti: non padroneggiamo le lingue e non abbiamo creato un ceto di funzionari come avevano fatto i britannici ai tempi del loro dominio sul mondo. È illuminante l’esempio dell’Iraq. Abbiamo organizzato elezioni, e le abbiamo perse. Posso citare un aneddoto di Zbigniew Brzezinski?».

Consigliere per la sicurezza nazionale di Jimmy Carter, a fine anni Settanta.
«E mio insegnante. Ogni volta che tornavo da un viaggio in Israele, andavo a trovarlo. Mi raccontò come un giorno chiese a re Hussein di Giordania se nel caso delle elezioni (si parlava dell’eventualità che Israele restituisse i Territori a lui e non ai palestinesi) le avrebbe vinte. Il monarca rispose: “se le gestisco io, vinco”. Ecco, in Iraq abbiamo gestito le elezioni e non le abbiamo vinte. Più che dell’impero parlerei della nostra egemonia. Però egemonia, insegna Gramsci, significa anche compromesso e tener conto degli alleati. Spero in un’Europa più attiva. Ne abbiamo bisogno».

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Ha citato l’Europa. C’è la Brexit. E quel che resta dell’Occidente ha di fronte una Russia piuttosto aggressiva, una Cina che comincia ad avere idee espansionistiche, un’India in mano ai nazionalisti radicali e un Medio Oriente molto complicato. Siamo di fronte al pericolo di una serie di guerre tradizionali?
«Penso di no. Tutti sono consci dei costi di simili guerre. Avremo probabilmente più conflitti dove le grandi potenze agiscono per procura e più guerre asimmetriche, eserciti regolari contro gruppi armati. Comunque Trump si trova a suo agio con i leader nazionalisti e autoritari. È questo il modo in cui anche lui concepisce la politica. C’è tuttavia una differenza fra russi e cinesi. I russi usano massicciamente il potere militare nei luoghi come Siria o Ucraina, mentre i cinesi, ammesso che siano un potere imperiale, lo sono per via della loro economia, non delle armi».

Intanto l’America ha tradito i curdi, dopo che sono stati i migliori alleati nella lotta contro l’Isis.
«E tutto il mondo ne è rimasto scioccato, compresi gli esperti americani di politica internazionale, a eccezione di alcuni accademici realisti, convinti che la Siria stia per diventare un satellite dei russi e che sarebbe meglio accettare lo status quo».

Poi ha dato l’ordine di uccidere Qassem Soleimani, in pratica il numero due del regime iraniano.
«È stato un atto di guerra. Soleimani certamente pensava di essere in guerra con gli Stati Uniti, quindi gli Stati Uniti potevano giustamente considerarlo un combattente nemico. È stata però un’uccisione spericolata - non parte di una strategia coerente per il Medio Oriente e non il prodotto di consultazioni con gli alleati, nemmeno con gli alleati che hanno soldati che combattono al fianco dei militari americani. Ma il tradimento dei curdi è probabilmente un esempio migliore della politica estera di Trump. O forse ambedue gli atti messi insieme fanno capire la misura dell’irresponsabilità americana».

Parliamo della sinistra. La parola uguaglianza…
«È valida e attuale. Ma uguaglianza non vuol dire essere identici: vestire tutti allo stesso modo come nella Cina di Mao. Per me uguaglianza significa che le persone che hanno più disponibilità di denaro non possono per questo avere assistenza medica o scuole migliori di quelle delle persone meno abbienti. Se riusciamo poi a porre fine alla conversione del denaro in potere politico potremo creare una società più egualitaria. Non è un sogno. Di fronte alla minaccia costituita dal cambiamento climatico del pianeta abbiamo solo due scelte: totalitarismo o democrazia, ossia un modo di vita in cui la gente coopera dal basso. La conversione ecologica avrà costi enormi. E quindi dobbiamo dare garanzie a chi ne risulterà danneggiato nel medio periodo. Un’operazione così complessa richiede una variante socialdemocratica della politica e del futuro».

Come fare?
«Non è facile immaginarlo. E fa paura questa difficoltà. Ma dovrebbe far più paura il cammino senza ostacoli con cui il capitalismo ci porta verso la catastrofe».

Crede quindi nella razionalità delle persone?
«Ci saranno sempre demagoghi che diranno: è colpa degli immigrati, degli ebrei, dei musulmani. Ma posso immaginare l’esistenza di piccole aggregazioni politiche attive, pragmatiche, influenti, in grado di richiamare la gente alla verità dei fatti. Devo credere a questa possibilità».

Guardiamo al partito democratico. I due ultimi presidenti che ha espresso, Bill Clinton e Barack Obama, erano personaggi carismatici. Venivano dai ceti meno privilegiati, era facile identificarsi con loro. Ora abbiamo a che fare con gente perbene, intelligente, come Bernie Sanders o Elizabeth Warren. Ma non hanno carisma.
«Nell’opinione comune i tempi peggiori fanno da richiamo alle persone migliori che salvano il mondo: per esempio Winston Churchill o Franklin Delano Roosevelt. Ma non sarei sicuro che nel 1933 Roosevelt sia stato percepito come un gigante. Qualora Warren dovesse vincere le elezioni, cosa che temo non succederà, con ogni probabilità scopriremmo che è una donna dal carattere forte. E perfino che abbia un certo carisma. Il potere trasforma chi lo detiene».

Insisto nello scetticismo. In un suo libro degli anni Ottanta, “Esodo e rivoluzione”, lei parte dal testo biblico che racconta l’uscita degli ebrei dall’Egitto verso la Terra promessa, per analizzare meccanismi della leadership sia rivoluzionaria che socialdemocratica. Dice che non era Dio a guidare Mosè, ma fu il popolo il protagonista di una trasformazione radicale. Mosè riesce nella sua impresa grazie alla fiducia del popolo. Oggi non si vedono né Mosè né popolo, e i democratici assomigliano a una rissosa confederazione di minoranze.
«Gli afroamericani e gli ispanici, quindi gente che fa parte delle minoranze, sono una componente della classe operaia americana. E molti di loro votano per il partito democratico. Ma parliamo di Sanders. È fin dall’aspetto fisico un tipico intellettuale ebreo socialista, e ancora pochi anni fa non sarebbe stato immaginabile che uno come lui ottenesse ampi consensi. Eppure, oggi ha più seguito fra i lavoratori bianchi di ogni altro politico democratico».

I radicali possono vincere, o almeno mobilitare le persone, più dei centristi?
«Sì. È così».

E allora perché in Gran Bretagna Corbyn ha perso?
«Perché non aveva una linea politica chiara. Non aveva una posizione su Brexit in un partito di cui molti aderenti erano favorevoli all’Europa, per non parlare dell’antisemitismo».

Pochi anni fa l’America fu sconvolta dal movimento Occupy Wall Street. Il consenso che avevano riscosso quei ragazzi e ragazze era enorme. Eppure, in fin dei conti, non hanno combinato niente.
«Sono un sostenitore della vecchia massima sindacale: “organizza”. Non si può portare avanti un movimento e una causa, per quanto popolari, senza individuare uomini e donne che devono rendere conto ad altri. Amici della nostra rivista “Dissent” mi hanno raccontato un’assemblea di Occupy. Qualcuno aveva detto: “dobbiamo arruolare nuova gente”. Si sentì un voce: “l’arruolamento è un’idea fascista”. Ecco, così non si può costruire un movimento politico di successo».

Per concludere torniamo a Trump. Pensa che il suo sovranismo e populismo siano un pericolo per la democrazia? Non è il primo periodo buio nella storia degli States. C’è stato il maccartismo, la caccia al nemico interno comunista negli anni Cinquanta.
«Altri quattro anni del potere di Trump potrebbero essere fatali. Ho sempre pensato che il pericolo del fascismo o di un governo autoritario che non rispetta i diritti civili e politici riguardasse altri Paesi, non il nostro. Da noi i margini della tenuta democratica erano, così ho pensato, ampi. Ma questi margini si fanno sempre più ristretti».

Perché?
«Perché una grande parte della popolazione è piena di risentimento e di rabbia. Molte sono le colpe dei democratici. Sono cresciuto a Jonestown, una cittadina industriale in Pennsylvania. Da noi, il sindacato arrivò negli anni Quaranta e il luogo diventò una roccaforte democratica. Ma negli ultimi decenni la produzione dell’acciaio è crollata. Oggi non ci sono più fabbriche né acciaierie e due elettori su tre votano Trump. Mi chiede cosa avrebbero potuto fare Clinton o Obama? Non so. Ma sono sicuro che avrebbero dovuto pensare a come riconvertire le industrie e ai programmi di sostegno a questa gente che ha perso il lavoro e che era la base del partito democratico. Ho detto prima che non abbiamo perduto tutta la classe operaia, ma aggiungo che la domanda sui motivi per cui molti lavoratori ci hanno abbandonato, la sinistra se la deve porre. E molto seriamente».