Internazionale

Erdogan e Putin pronti alla guerra per controllare gli oleodotti del Caucaso

di Francesca Mannocchi   1 ottobre 2020

  • linkedintwitterfacebook
nagorno-jpg

La disputa tra Azerbaigian e Armenia per il possesso del Nagorno-Karabakh dura da trent'anni. Ma ora sta esplodendo. La Turchia minaccia di intervenire. La Russia organizza un'esercitazione sul posto. E L'Europa, come in Libia, tra i due litiganti non riesce a trovare un ruolo

nagorno-jpg
Una disputa territoriale lunga trent’anni nella regione del Caucaso si è riaccesa nelle ultime settimane e tutto lascia temere che lo scontro tra Azerbaigian e Armenia sul Nagorno-Karabakh possa diventare un conflitto esteso, assai diverso dagli scontri a bassa intensità che hanno visto i due paesi fronteggiarsi per trent’anni.

«Siamo a un passo da una guerra su vasta scala», ha detto Olesya Vartanyan dell'International Crisis Group aggiungendo che ritiene preoccupante il dispiegamento di armi pesanti, razzi e artiglieria che mettono a rischio la vita dei civili e il cui impiego renderebbe difficile un passo indietro delle due forze militari e dei loro alleati.

Lo scontro tra azeri e armeni è uno dei conflitti più antichi del mondo. Il Nagorno–Karabakh è un territorio montuoso del Caucaso meridionale, la regione è internazionalmente riconosciuta come parte dell’Azerbaijan (paese a maggioranza sciita) ma è controllata di fatto da gruppi armeni e cristiani.

Il Nagorno–Karabakh si dichiarò indipendente nel 1988 sostenuto dall’Armenia. L’autoproclamata indipendenza generò una guerra violenta – durata due anni, dal 1992 al 1994 – costata la vita a trentamila persone. Una guerra che ha costretto più di un milione di persone ad abbandonare le proprie case: gli azeri sono fuggiti dall'Armenia e dal Nagorno-Karabakh e gli armeni hanno abbandonato l’Azerbaijan. Ancora oggi la regione del Nagorno-Karabakh si considera stato indipendente, non essendo però riconosciuta da nessun paese al mondo (nemmeno dall’alleato armeno).

Nonostante il cessate il fuoco del 1994, con le mediazioni di tre copresidenti del Gruppo di Minsk dell’Osce, Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Russia, Francia e Stati Uniti), negli anni si sono susseguiti combattimenti periodici, gli ultimi nel 2012 e la guerra di quattro giorni nell’aprile del 2016. Il cessate il fuoco del 1994 non ha risolto il conflitto, non essendo mai stato firmato alcun accordo di pace, l’ha piuttosto congelato lungo il confine, nella zona nota come linea di contatto.

L’Azerbaijan ha più volte manifestato l’intenzione di voler riconquistare la regione, e le maggiori potenze coinvolte – in particolare la Russia che vende armi sia agli azeri che all’Armenia – hanno cercato una negoziazione che evitasse l’escalation militare. Stavolta, però, lo scenario sta assumendo contorni più preoccupanti, il presidente dell'Azerbaigian, Aliyev, e il primo ministro armeno Pashinyan hanno ordinato una mobilitazione dei riservisti, sia in alcune aree azere sia in Armenia e Nagorno-Karabakh è stata dichiarata la legge marziale, in base alla quale i militari assumono le funzioni del governo civile e entrambi i paesi hanno dichiarato la mobilitazione militare totale.

Il 29 settembre scorso si è riunito d’emergenza il consiglio di sicurezza dell’Onu, che ha espresso sostegno all’appello del Segretario Generale Antonio Guterres di «fermare immediatamente i combattimenti e tornare a negoziati significativi e senza ritardi». Ma quella che poteva sembrare l’ennesima schermaglia all’interno di una guerra locale, sta assumendo le sembianze di un conflitto su vasta scala, attirando potenze regionali e internazionali con interessi militari ed energetici nel Caucaso meridionale.

In particolare la Turchia, storicamente alleata con l’Azerbaijan. Dall’inizio dei combattimenti, la settimana scorsa, il presidente Erdogan non ha perso occasione per dichiarare il sostegno a Baku: «L'Armenia ha dimostrato ancora una volta di essere la più grande minaccia alla pace e alla tranquillità nella regione, come sempre, la nazione turca sta con i suoi fratelli azeri con tutti i suoi mezzi», ha detto Erdogan, esortando il mondo a schierarsi con gli azeri nella «battaglia contro l'invasione e la crudeltà».

La strategia turca pare essere la stessa già messa in atto nel nord della Siria e nella recente guerra di Tripoli: secondo il Syrian Observatory for Human Rights, un gruppo di monitoraggio con sede a Londra, la Turchia avrebbe trasferito 300 combattenti mercenari siriani in Azerbaijan. Turchi e azeri respingono le accuse, ma BBC Arabic il 30 settembre ha pubblicato un articolo in cui riporta una conversazione con un mercenario siriano schierato in Azerbaijan che riferisce di essere stato «reclutato dal comandante della divisione Hamza dell’Esercito siriano di opposizione sostenuto dalla Turchia, in cambio di 2mila dollari al mese».

La Turchia era già scesa in campo a due mesi fa, dopo le prime schermaglie militari tra azeri e armeni, che anticipavano il conflitto di queste ore, organizzando un training militare terrestre e aereo in Azerbaijan per due settimane. La Russia non ha evidentemente prestato la giusta attenzione agli scontri di luglio, e probabilmente proprio la mancanza di reazione dell’estate ha aperto la strada a una più massiccia operazione e combattimenti su larga scala. Anche Mosca, ora però, è impegnata in un’esercitazione militare: KavKaz 2020 (Caucaso 2020).

Secondo i media russi, l’esercitazione – che si svolgerà nel distretto militare meridionale della Russia, dalla Crimea al Mar Caspio a est – coinvolgerà ottantamila soldati, non solo russi ma provenienti anche da Armenia, Bielorussia, Cina, Iran, Myanmar e Pakistan. Imponente anche il numero di mezzi: 250 carri armati, 500 corazzati da trasporto truppe, 200 pezzi di artiglieria e navi delle marine russa e iraniana. In occasione di KavKaz 2020, 1500 truppe russe e armene si eserciteranno non lontano dal confine con l’Azerbaijan.

Appare chiaro che nonostante le dichiarazioni ufficiali con cui chiede un cessate il fuoco immediato e colloqui per stabilizzare la situazione, Mosca mandi un chiaro messaggio agli azeri, ovvero che ritenga il Caucaso meridionale sotto la sua naturale sfera di influenza. Perciò mostra e dimostra di avere gli uomini e i mezzi per difenderla. Luke Coffey, direttore del Douglas and Sarah Allison Center for Foreign Policy, presso l’Heritage Foundation, sottolinea come dopo che la Russia ha rifornito di armi l’Armenia lo scorso luglio, Baku abbia assunto un approccio più duro verso Mosca. «L'Azerbaigian ha anche recentemente negato l'accesso al suo spazio aereo per gli aerei dell'aeronautica russa di ritorno dalla Siria», scrive Coffey. «Questo tipo di rifiuto è qualcosa a cui il Cremlino non è abituato, nei suoi rapporti con l'Azerbaijan».

La Russia è però in una situazione delicata e particolarmente vulnerabile: vendendo armi a entrambe la parti in conflitto ha, almeno sulla carta, interesse a una soluzione diplomatica, ha in più un accordo di mutua difesa con l’Armenia, sarebbe tenuta cioè a intervenire nel caso l’Armenia venisse attaccata direttamente. Al momento gli scontri sarebbero circoscritti al Nagorno-Karabakh ma il governo armeno sostiene – cercando il supporto militare – di aver ricevuto bombardamenti sul proprio territorio.

«Qualsiasi passo russo potrebbe essere considerato da entrambe le parti come non amichevole e questa è una situazione piuttosto difficile, ecco perché la Russia cerca di avviare un nuovo ciclo di negoziati», ha detto Stanislav Pritchin, ricercatore presso il Center for Central Asia and Caucasus Studies all’Istituto di Studi Orientali di Mosca.

Quello che è chiaro è che il conflitto in Nagorno-Karabakh proietta l’antagonismo tra la Russia e la Turchia in uno scenario simile a quello che i due paesi hanno già sperimentato in territorio siriano e libico. Sono antagonisti, rivali, ma non del tutto nemici. Turchia e Russia hanno infatti, in questi anni, mantenuto rapporti commerciali, stretto accordi sul gas naturale, in piu’ la Turchia ha acquistato missili antiaerei dalla Russia.

Per comprendere a pieno l’interesse delle due grandi potenze nel Caucaso è sufficiente osservare la cartina geografica. Il tema del conflitto sono gli idrocarburi del Caspio che transitano nel Caucaso. Le parole d’ordine, come nelle altre guerre che vedono protagoniste Russia e Turchia, tornano a essere: gas e petrolio. Ed è anche il motivo per cui è allarmata la comunità internazionale: il Nagorno-Karabakh funge da corridoio per gli oleodotti che portano petrolio e gas ai mercati mondiali.

«È una regione di importanza internazionale, soprattutto negli ultimi 25 anni, per gli oleodotti e i gasdotti che la attraversano», ha detto ad Al Jazeera Thomas de Waal, senior fellow della Carnegie Europe specializzato in Europa orientale e nella regione del Caucaso, sottolineando come parte dei disordini di queste settimane derivi da un disimpegno americano: «Abbiamo assistito a un costante disimpegno degli Stati Uniti nella regione, cinicamente possiamo dire che uno dei motivi per cui l’Azerbaijan ha lanciato un’offensiva militare è proprio gli Stati Uniti sono così disimpegnati al momento».

L’Europa ha tutto l’interesse nel tornare protagonista e nell’evitare l’escalation per salvaguardare il fragile equilibrio congelato della guerra del Nagorno Karabakh, perché spera che l’Azerbaijan sia in futuro il paese di transito delle risorse energetiche dall’Asia Centrale direttamente all’Europa. Un gasdotto in particolare, completato lo scorso novembre, si estende attraverso la Turchia, e dovrebbe sollevare l’Europa dalla dipendenza dal gas russo.

Dopo la caduta dell'Unione Sovietica, infatti, l'Azerbaigian ha cercato di esportare il proprio petrolio e gas senza fare affidamento sugli oleodotti russi. Ha attirato investitori occidentali, installando oleodotti e gasdotti che hanno permesso al paese di trasportare la sua energia dal Mar Caspio ai mercati internazionali.

Baku è diventata una città piu’ simile alle capitali del golfo che a una metropoli ex sovietica. E questo è uno dei motivi che ha attratto investitori turchi negli ultimi decenni e una delle ragioni, dunque, del coinvolgimento diretto di Ankara nel conflitto.

A lungo termine, dunque, l'Azerbaigian potrebbe diventare un paese di transito per il trasporto di risorse energetiche dall'Asia centrale all'Europa. Resta solo da capire se la non belligeranza di Erdogan e Putin reggerà nella partita del Nagorno Karabakh e quanto sia determinato Erdogan nel riempire i vuoti della politica estera statunitense e di quella europea e capitalizzare l’impegno militare, esattamente come ha fatto in Siria e come sta facendo in Libia.